Perdere il lavoro, ma con dignità
Liquidare una questione serissima quale è il tentativo di valutare in che misura una norma possa incidere sulla situazione reale del Paese, o di un comparto economico, come un attacco plutocratico o un atto di terrorismo psicologico o, come nel caso della fattura elettronica, come un atteggiamento retrogrado appare un po’ troppo semplice. Come appare un po’ troppo semplice, in questo clima di campagna elettorale permanente, continuare a fare finta che la realtà non esista.
Fare finta che la realtà non esista, nel campo del lavoro dipendente, significa basare ogni ragionamento su tre assunti di fondo:
- l’unica alternativa possibile ad un contratto a termine è un contratto a tempo indeterminato;
- rendere più rigido e costoso il contratto di lavoro dipendente, soprattutto nel caso in cui si renda necessario risolverlo, non avrà effetti sull’entità del ricorso a questo tipo di contratto;
- la spesa che un’azienda sostiene per il personale è una variabile indipendente dalla situazione economica dell’azienda e non può avere alcun legame con il risultato che quel fattore produce.
Il primo assunto è sbagliato da un punto di vista prima di tutto logico. L’alternativa più probabile ad un contratto a termine è nessun contratto o la terziarizzazione della funzione. Se un’azienda è contenta di un dipendente con contratto a termine e se lo può permettere, alla fine del contratto lo confermerà; se è scontenta non lo confermerà. Se ha dubbi sulla persona o sulla possibilità economica di sostenerne la spesa in modo duraturo, se potrà dargli ancora una possibilità, magari prorogherà il contratto a termine. Se la proroga è impossibile, il dipendente non verrà confermato.
Sul secondo punto la realtà sta esattamente all’opposto: volendo estremizzare, libertà di licenziare vuol dire libertà di assumere. La certezza di poter porre fine ad un rapporto di lavoro a costi ragionevoli scioglie all’istante qualsiasi remora all’assunzione. Ogni vincolo al licenziamento invece fa alzare l’asticella che deve essere superata dall’aspirante, così da ridurre via via il numero di persone che sono in grado di saltarla. Inoltre, la paura di sbagliare che assale chi deve dare l’ok all’assunzione produce l’effetto perverso di innalzare il peso delle “raccomandazioni” e delle informazioni raccolte per vie laterali da amici e conoscenti.
È il retropensiero della difficoltà a sciogliere il rapporto se non dovesse funzionare che il più delle volte produce la letterina con la ferocissima frase: “ci spiace comunicare che non ha superato la fase di selezione. Terremo comunque presente la sua candidatura...”.
La falsità del terzo assunto sembrerebbe addirittura lapalissiana. Davvero è questione da trattare con la massima cautela, perché dietro c’è la vita delle persone e delle famiglie, ma il costo del lavoro è per l’appunto anche un costo. Se non sei lo Stato o un ente pubblico, che quando ha bisogno di più soldi li stampa o aumenta le tasse, per pagare un dipendente hai bisogno di una entrata di entità almeno corrispondente al suo costo. Le entrate per un’azienda sono il prezzo dei suoi prodotti. In un sistema di libero scambio le aziende subiscono la concorrenza di Paesi dove il costo del lavoro è irrisorio e in clima di ricerca esasperata del low cost sono i consumatori stessi, in larga parte lavoratori dipendenti, che con la loro selettiva ferocia contribuiscono a tenere più basse possibile le risorse di cui le aziende dispongono per pagare stipendi, conservare posti di lavoro e assumere nuove risorse.
Un costo importante e fisso, che andrà contrapposto a ricavi che sono per definizione variabili e incerti, rappresenta un rischio tanto più elevato quanto più stringente è il vincolo che viene assunto. Più il rischio è alto, più lo accetterò solo nei casi in cui non ne potrò proprio più fare a meno e dopo aver esplorato ogni possibile alternativa. L’imprenditore per definizione deve assumere dei rischi, ma sempre nell’ambito del ragionevole. Se un’impresa fallisce perché ha dieci dipendenti in più del necessario, questo non esimerà il titolare dalle eventuali responsabilità per aver aggravato il dissesto proprio non avendo ridotto la forza lavoro o peggio avendo aumentato i dipendenti quando era già chiaro che non poteva permetterselo.
Io non sono certamente in grado di produrre dati con valenza scientifica. Mi limito ad osservare i risultati del pensiero prevalente che negli ultimi 50 anni ha caratterizzato il rapporto impresa/lavoratore trasfondendosi nella relativa disciplina legislativa:
- l’Italia ha prodotto un numero esiguo di multinazionali importanti e alcune di queste hanno trasferito il quartier generale e i connessi posti di lavoro all’estero;
- nonostante l’Italia abbia avuto il più forte partito comunista dell’Occidente e sia sede del Papato, si trova ad avere il costo del lavoro fra i più alti d’Europa e i salari netti fra i più bassi d’Europa;
- trovare un lavoro è difficile, trovarlo dopo averne perso uno è difficilissimo.
La soluzione sarà allora conservare, e se possibile aumentare, così come è stato fatto finora i vincoli e i costi per chi intende assumere?
Non ho elementi per dire se il decreto dignità produrrà 8.000 licenziamenti. Uno però lo ha già prodotto. La figlia di una mia conoscente aveva un contratto a termine come cassiera in un supermercato dove tutto sembrava andare per il meglio e nulla lasciava presagire che non sarebbe stato rinnovato. Ieri ha ricevuto la lettera che non avrebbe avuto il rinnovo. Così ora potrà stare dignitosamente a casa.
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