Nessun automatismo per il danno da irragionevole durata della procedura concorsuale
La Consulta ha escluso l’illegittimità costituzionale della «legge Pinto»
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 102 depositata ieri, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 2-bis della L. 89/2001, sollevata – in riferimento agli artt. 3, 24 e 117 comma 1 Cost. per l’art. 6 della CEDU – con ordinanza 18 settembre 2024 n. 218 dalla Corte di Appello di Venezia, nella parte in cui non prevede che, valutata la complessità del processo, il giudice possa ritenere non irragionevole la sua durata nonostante il superamento del termine di sei anni.
Il comma 2-bis dell’art. 2 della L. 89/2001, che fissa in 6 anni la ragionevole durata delle procedure concorsuali, sarebbe irragionevole nella parte in cui, secondo il rimettente, non permette di considerare i ritardi causati da impedimenti oggettivi – non ascrivibili agli organi della procedura – e accomunando, quanto alla durata, procedure di complessità diversa.
Il superamento del termine di sei anni renderebbe la durata della procedura automaticamente irragionevole, svuotando di significato il disposto normativo e l’accertamento dell’an della pretesa indennitaria si risolverebbe nel mero calcolo del tempo trascorso tra la domanda di insinuazione al passivo e quella del decreto di chiusura del fallimento, ovvero la data del deposito del ricorso ex art. 3 della L. 89/2001, in pendenza della procedura.
La norma censurata, inoltre, da un lato, si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. (finendo per indurre gli organi della procedura, per non incorrere in responsabilità, a non promuovere le azioni necessarie a tutela dei creditori concorsuali), dall’altro, sarebbe incompatibile con l’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, che impone di valutare le circostanze del caso concreto.
Esclusa l’applicazione, sotto un profilo temporale, al caso di specie della disciplina del Codice della crisi (art. 213 comma 9 del DLgs. 14/2019), i giudici, in primo luogo, ricordano come l’art. 2 comma 2 della L. 89/2001 imponga al giudice dell’equa riparazione di valutare, ai fini dell’accertamento della violazione, anche il comportamento delle parti, potendosi, pertanto, escludere il diritto all’equo indennizzo quando il ritardo sia imputabile a una condotta negligente.
Nel caso di specie, tuttavia, le ragioni del ritardo erano riconducibili alla complessità della procedura.
La giurisprudenza, al riguardo, ha introdotto un temperamento al comma 2-bis, ritenendo “tollerabile”, nel caso di procedura di notevole complessità, una durata di 7 anni (Cass. nn. 22340/2023 e 31274/2022).
Le ragioni della “notevole complessità”, secondo la giurisprudenza della CEDU, si ravvisano nel numero dei creditori, nella particolare natura o situazione dei beni da liquidare, nella proliferazione di giudizi e nella pluralità di procedure interdipendenti.
La Corte Costituzionale n. 36 del 2016 ha chiarito come, sul piano interpretativo, i termini di durata fissati nel comma 2-bis non costituiscano meri parametri di riferimento, ma termini inderogabili sottratti alla discrezionalità giudiziaria.
Successivamente, con sentenza n. 205/2023, la Corte Costituzionale ha, tuttavia, evidenziato la necessità di non poter prescindere dalle caratteristiche e dalla natura del procedimento, come affermato anche dalla giurisprudenza europea ai fini dell’art. 6 CEDU.
Il termine di ragionevole durata delle procedure, indicato nel comma 2-bis e in linea con lo standard della Corte europea, non produce, quindi, alcun automatismo, posto che il diritto all’equo indennizzo non sorge per il mero superamento dei termini di durata.
A sostegno dell’assunto viene in rilievo anche l’art. 2 comma 2, che consente al giudice dell’equa riparazione la valutazione di elementi ulteriori alla durata del giudizio per ritenere sussistente o meno il diritto all’indennizzo.
I commi 2-quinquies e 2-sexies dell’art. 2 della L. 89/2001 contengono, peraltro, una tipizzazione di circostanze idonee a escludere la presunzione della durata irragionevole; in particolare, è valorizzato il principio di autoresponsabilità in relazione alle condotte della parte che ha dato causa al ritardo con comportamenti dilatori (Cass. n. 28498/2020).
L’art. 2-bis della L. 89/2001, invece, affida al giudice la quantificazione dell’indennizzo in relazione al caso concreto.
Il computo della durata della procedura, invece, è condotto a partire dall’accertamento del diritto di credito (Cass. n. 324/2024) e fino a quando il creditore sia stato integralmente soddisfatto o, in caso di mancato pagamento per incapienza, fino al decreto di chiusura del fallimento (Cass. nn. 2013/2017 e 7864/2018).
Rammentano infine i giudici come, con riferimento al rapporto tra la procedura concorsuale e i giudizi collegati, il legislatore sia intervenuto solo sulla legge fallimentare (e non sulla L. 89/2001), disponendo come le controversie di cui è parte un fallimento siano trattate con priorità e consentendo, a certe condizioni, la chiusura della procedura in pendenza di giudizi (artt. 43 e 118 del RD 267/42), scelta confermata anche nel DLgs. 14/2019, orientato alla rapida definizione delle fasi della procedura che precedono la liquidazione dell’attivo.
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