Chi recede dalla società di fatto con il coniuge ha diritto agli utili non percepiti
Per la Cassazione sono da includere anche quelli derivanti da operazioni in corso al momento del recesso formalizzato con l’azione giudiziaria
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 29036 depositata il 3 novembre scorso, ha stabilito che, in presenza di una società di fatto tra due coniugi, la domanda proposta da uno di essi per ottenere la liquidazione della propria quota e gli utili non percepiti è da qualificare come esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2289 c.c. laddove dalle deduzioni delle parti non emerga che la società avesse in qualche modo svolto la fase liquidatoria o che si trovasse in pendenza di essa al momento dell’instaurazione del giudizio.
Si evidenzia, in primo luogo, come i regimi per lo svolgimento di attività d’impresa in ambito familiare possano assumere qualificazioni giuridiche diverse, con conseguente differente disciplina dei rispettivi rapporti.
Si pensi all’azienda coniugale ex art. 177 comma 1 lett. d) c.c., all’azienda appartenente a uno solo dei coniugi con mera comunione di utili e incrementi ex art. 177 comma 2 c.c., all’impresa gestita individualmente da uno dei coniugi ex art. 178 c.c., all’impresa familiare ex artt. 230-bis e 230-ter c.c., al patto di famiglia ex art. 768-bis c.c. e, da ultimo, alle società di persone ed a quelle di capitali.
Si tratta di istituti che, chiaramente, presentano presupposti integrativi diversi rispetto ai quali il giudice adito non può sostituire i fatti allegati da una parte come costitutivi di uno di essi con quelli che meglio si adattino a rappresentare gli elementi integrativi di una fattispecie diversa che egli intenda applicare (cfr. Cass. n. 8222/2020).
Di conseguenza, una volta accertata, come accadeva nel caso di specie, l’esistenza tra due coniugi di una società di fatto, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 2297 c.c., ad essa (così come alla società irregolare) si applicano le disposizioni relative alla società semplice.
Nel contesto di una società di fatto tra due coniugi, inoltre, la domanda proposta dalla moglie per ottenere la liquidazione della sua quota societaria e gli utili non percepiti è da qualificare come proposta ai sensi dell’art. 2289 c.c., o meglio come esercizio del diritto di recesso.
È, invece, da escludere che la domanda (o le correlate eccezioni) siano da collocare nel contesto dello scioglimento della società – in quanto tale evento comporta l’apertura della fase di liquidazione ex artt. 2274 e ss. c.c. – laddove non emerga in alcun modo, dalle deduzioni delle parti, che la società avesse in qualche modo, anche di fatto, svolto quella fase o vi si trovasse al momento dell’instaurazione del giudizio.
Tale rilievo non muta quando i soci siano soltanto due; tale circostanza, infatti, non annulla le differenze che intercorrono tra lo scioglimento della società e il recesso del singolo socio con riguardo alle relative liquidazioni.
L’art. 2272 n. 4 c.c., infatti, prevede come causa di scioglimento della società il venir meno della pluralità di soci solo nel caso in cui questa non sia ricostituita nel termine di sei mesi.
Di conseguenza, ove uno dei due soci abbia esercitato il diritto di recesso e, così, richiesto la liquidazione della propria quota, solo dopo il decorso di sei mesi da quel momento, e solo se la pluralità di soci non sia stata nel frattempo ricostituita, si verifica la causa di scioglimento della società.
Il recesso di uno di due soci determina esclusivamente il diritto allo stralcio della relativa quota ex art. 2289 c.c.; mentre lo scioglimento della società, anche composta da due soli soci, rimane assoggettato alle regole di cui agli artt. 2274 e ss. c.c.
La domanda di liquidazione della quota societaria implica lo scioglimento non della società ma del solo rapporto societario limitatamente a chi la propone, perché esso sta esercitando il diritto di recesso.
Dalla ricostruzione in questi termini dell’oggetto della causa consegue che il diritto di recesso ex art. 2285 c.c. deve considerarsi esercitato nel momento in cui tale volontà è resa manifesta. Poiché, infatti, il recesso dalla società di persone è atto unilaterale recettizio, lo status di socio si perde al momento della comunicazione del recesso; ossia, nel caso di specie, dal momento dell’esercizio dell’azione giudiziaria.
La moglie, quindi, perdeva lo status socii e il diritto agli utili dalla notificazione dell’atto di citazione (cfr. Cass. n. 21036/2017 e Cass. n. 5836/2013).
Ma da quel momento acquisiva, da un lato, il diritto alla liquidazione della quota ai sensi dell’art. 2289 c.c. – che, al secondo comma, stabilisce che essa debba essere effettuata in base alla situazione patrimoniale della società nel momento in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al recedente medesimo – e, dall’altro, il diritto agli utili maturati ed a lei non riconosciuti fino al recesso, inclusi quelli derivanti dalle operazioni in corso in quel momento al netto di eventuali perdite, ai sensi dell’art. 2289 comma 3 c.c.
Vietata ogni riproduzione ed estrazione ex art. 70-quater della L. 633/41