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FISCO

Non c’è esterovestione se la società svolge attività economica all’estero

Trattandosi di un fenomeno abusivo occorre provare la presenza di una costruzione di puro artificio

/ Luisa CORSO e Gianluca ODETTO

Mercoledì, 27 agosto 2025

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Con la sentenza n. 23842 depositata il 25 agosto 2025 la Corte di Cassazione ha nuovamente aderito all’impostazione, sviluppatasi con le sentenze penali Dolce e Gabbana, per cui l’esterovestizione è un fenomeno abusivo che non può essere contestato in mancanza di una costruzione di puro artificio, ove la società svolga all’estero un’attività economica effettiva.

Il caso affrontato dalla Suprema Corte riguarda la contestazione della residenza fiscale italiana di una società di diritto portoghese con sede in Madeira (territorio a regime fiscale di favore), la quale effettuava attività di rimorchio d’altura e di assistenza alle piattaforme petrolifere presso la costa sud occidentale dell’Africa.

L’Ufficio aveva basato le proprie contestazioni eccependo la presenza della sede effettiva in Italia, in quanto luogo in cui si svolgeva la prevalente attività direttiva e amministrativa; secondo l’Amministrazione finanziaria, la gestione della società era solo formalmente affidata all’estero, mentre l’amministrazione di fatto era esercitata in Italia dagli effettivi proprietari.
A fronte di tale contestazione l’Agenzia delle Entrate aveva quindi riqualificato la società come residente in Italia ai sensi dell’art. 73 comma 3 del TUIR, attribuendo alla stessa codice fiscale e partita IVA italiani.

La Corte di Cassazione, nel pronunciarsi in merito al caso prospettato, chiarisce in primo luogo come per esterovestizione si intenda la fittizia localizzazione della residenza fisale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.

Al riguardo, si fa presente come la giurisprudenza unionale abbia stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso della libertà di stabilimento; una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa solo se concerne costruzioni di puro artificio volte ad eludere la normativa dello Stato membro interessato (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, causa C-196/04).

Occorre dunque accertare l’apparente localizzazione all’estero di un soggetto, mediante costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica, il cui scopo essenziale è limitato all’ottenimento di un vantaggio fiscale.
Sul piano interno, l’art. 73 comma 3 del TUIR ricollega, tra l’altro, la residenza fiscale della società alla sede di direzione effettiva (all’epoca dei fatti, “sede dell’amministrazione”), intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente.

Tale verifica, tuttavia, non può prescindere dalla valutazione delle circostanze del caso concreto. In particolare, la società oggetto di contestazione si è sempre avvalsa dell’ufficio in Madeira, in cui è ubicata la sede sociale, oltre che di rimorchiatori e dipendenti non italiani; le riunioni del Consiglio di amministrazione e le assemblee dei soci si erano sempre svolte all’estero.

Inoltre, viene dato rilievo alla circostanza per cui l’attività, essendo geograficamente svolta in luoghi (l’oceano Atlantico) contigui a Madeira, si presumeva effettivamente svolta in loco. E ciò indipendentemente dalla circostanza per cui alcune funzioni erano materialmente svolte da società italiane riconducibili alla medesima compagine sociale in virtù di contratti di ship management.

Alla luce di tali circostanze, la Suprema Corte ha ritenuto carente la contestazione dell’Ufficio relativa alla presenza in Italia di presunti amministratori di fatto. Secondo i giudici, infatti, “anche a voler ammettere il loro ruolo di amministratori di fatto”, l’individuazione del luogo da cui partono gli impulsi gestionali e di direzione non sarebbe un criterio sufficiente per dimostrare l’esterovestizione della società, dovendosi comunque dimostrare che quest’ultima è una “struttura non effettiva”.

Nel ribadire che tali conclusioni sono riferite al previgente contesto normativo, sembra quindi riemergere la dicotomia tra esterovestizione quale fenomeno derivante dalla mera sussistenza di almeno uno tra i criteri di collegamento previsti dalla norma interna ed “esterovestizione abusiva”, oggetto di analisi approfondita da parte della circ. Assonime n. 15/2024 (§ 4) e questa volta decisa dalla Cassazione con un favore per la seconda.

La sentenza, da ultimo, merita di essere segnalata in quanto, essendosi respinte le eccezioni dell’Ufficio in merito alla residenza della società ai fini delle imposte sui redditi, confermata in Portogallo, sono automaticamente venute meno anche le contestazioni in materia di IVA che sarebbero derivate dai diversi criteri di territorialità delle prestazioni rese.

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