Solo la contrattazione di secondo livello può ridurre le retribuzioni nelle società in house
I rapporti di lavoro delle società partecipate sono regolati dalle norme di diritto comune
La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 26666 del 3 ottobre 2025, ha chiarito che, nelle società a partecipazione pubblica, eventuali riduzioni dei trattamenti economici dei dipendenti possono essere introdotte solo mediante contrattazione collettiva di secondo livello, non potendo fondarsi unicamente su provvedimenti di contenimento della spesa pubblica.
Il caso di specie originava dalla domanda di un lavoratore, dipendente di una società interamente partecipata da un ente pubblico, diretta a ottenere le differenze retributive derivanti da aumenti contrattuali maturati nell’arco di tre anni e previsti dal CCNL applicato al rapporto; la società convenuta non aveva infatti dato corso a tali erogazioni sostenendo di essere vincolata, quale società in house, al blocco degli stipendi di cui all’art. 9 del DL 78/2010, per concorrere con la controllante al contenimento della spesa pubblica.
A fronte della pronuncia dei giudici di seconde cure che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, avevano riconosciuto il diritto del lavoratore al conseguimento di tali somme, la datrice di lavoro aveva portato la vicenda all’attenzione della Cassazione, la quale, tuttavia, ha rigettato il ricorso.
Con l’occasione, i giudici di legittimità hanno ricordato come la disciplina dei rapporti di lavoro con le società partecipate da enti pubblici, ivi comprese le società destinate alla gestione c.d. in house di servizi pubblici, sia quella comune ai rapporti di lavoro così come disciplinati dal codice civile e dalle norme sul lavoro privato; anche la contrattazione collettiva di riferimento è quella privatistica e non quella regolata dal DLgs. 165/2001.
Infatti, come affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, la partecipazione non muta la natura di soggetto privato della società, la quale resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. Cass. SS.UU. n. 29078/2019). Tale assetto è oggi consacrato nel DLgs. 175/2016, con la specifica statuizione, contenuta all’art. 19, per cui “salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente e dai contratti collettivi”.
Ad assumere rilievo, per quanto qui interessa, è l’art. 19 comma 5 del DLgs. 175/2016, in forza del quale le amministrazioni pubbliche socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. Il successivo comma 6 stabilisce, poi, che tali società devono perseguire detti obiettivi attraverso propri provvedimenti da recepire, ove possibile, in sede di contrattazione di secondo livello. Ed è proprio tale disposizione a essere centrale: la società o l’ente controllante non ha la possibilità di intervenire unilateralmente e, pertanto, la contrattazione collettiva non può essere superata, se non con le forme previste dalla normativa, che richiama appunto la necessità che la revisione dei costi sia fatta propria dalla contrattazione di secondo livello.
Questa conclusione, argomenta ulteriormente la Corte, è altresì avallata dalla circostanza per cui il richiamo delle disposizioni menzionate alla contrattazione collettiva di secondo livello sarebbe sostanzialmente inutile, se a disporre in senso derogatorio fossero sufficienti atti unilaterali del datore di lavoro o dell’ente controllante.
In questa ottica, proseguono i giudici di legittimità, acquista altresì significato l’inciso “ove possibile” contenuto nel comma 6 del citato art. 19: la norma impone agli amministratori di tenere determinati comportamenti, finalizzati alla riduzione dei costi e dunque diretti a fare in modo che la contrattazione di secondo livello recepisca le misure in tal senso da essi adottate; ciò, però, “ove possibile”, intendendo che nessuna responsabilità, per la circostanza che ciò non avvenga, potrebbe essere addebitata agli amministratori che si siano attivati in tal senso, pur senza ottenere il risultato dell’accordo sindacale.
A fronte di questi rilievi, la Cassazione dichiara quindi il ricorso della datrice infondato: i diritti derivanti dal CCNL applicato al lavoratore, anche in forza della natura privatistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate, non possono essere compressi da atti finalizzati al contenimento della spesa pubblica che non siano stati altresì recepiti nella contrattazione di secondo livello.
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