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OPINIONI

La riforma tributaria prossima ventura

Tutti la vogliono, a parole. Ma qualcuno si è chiesto cosa vogliono i contribuenti?

/ Giuseppe REBECCA

Venerdì, 12 marzo 2010

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Tutti vogliono la riforma tributaria. La vuole il governo, la vuole l’opposizione, la vogliono i sindacati. È un refrain periodico, ora di attualità.
Nessuno ha pensato di chiedere se la vogliono anche i contribuenti. Potrebbero esserci risposte inattese.

Berlusconi l’11 gennaio 2010 ha rilanciato la “sua” riforma: due sole aliquote IRPEF (23% e 33%). Lo scorso anno aveva lanciato il tema dell’abbandono dell’IRAP (ottobre 2009, in occasione dell’assemblea di Confcommercio).
Tremonti è intervenuto: non c’è spazio per tagli di imposte non coerenti con una riforma tributaria organica e strutturale del sistema; “non c’è spazio per nuovi deficit”.
In due parole, se si taglia da una parte, bisognerà prelevare da qualche altra parte.
Bersani ha dichiarato al TG1, in gennaio di quest’anno, che la proposta “porta troppi soldi verso i ricchi. Se vogliamo discutere di IRPEF per lavoro e famiglia, superamento degli studi di settore, di rendita finanziaria e lotta all’evasione si venga in Parlamento, noi le nostre proposte le abbiamo”.
Tremonti e Bersani hanno ora riconfermato che la riforma tributaria è necessaria, in occasione del recente incontro organizzato dalla UIL.

Cosa potremo attenderci? Riduzione dell’IRPEF, aumento dell’IVA, uniformità di tributi per i redditi di capitale, poco d’altro. Il deficit dello Stato italiano non permette molto di più.
Ma ne varrà la pena? A mio avviso assolutamente no.
Ricordiamo, perché pare che tutti se ne siano dimenticati, cosa è successo con l’ultima riforma tributaria, fine 2001 / inizio 2003.
Siamo nel periodo del governo Berlusconi, il governo più longevo della storia della Repubblica Italiana, con Ministro dell’Economia e delle Finanze il Prof. Tremonti (poi sostituito, nel 2004, da Siniscalco).
Ma quella diacronica riforma a moduli è stata una grande incompiuta.
Doveva essere approvata per moduli, il primo relativo all’IRES, al trattamento dei dividendi e dei capital gains (modulo attuato), con riforma dell’IRE rinviata al 2005. Salvo che poi tutti si sono poi dimenticati del secondo modulo.

Tanto rumore per nulla, o quasi nulla. Gli unici cambiamenti rilevanti sono stati la PEX, l’esenzione (allora) dei dividendi, il consolidato e la trasparenza fiscale. Disatteso tutto il resto.
Sistema favorevole per le imprese, e basta.
Non sono passati molto anni, dalla riforma del 2001/2003, e si vuole cambiare. Staremo a vedere.

Può essere di stimolo, per tutti, qualche pensiero del tempo andato.
“Più presto ci persuaderemo che la giustizia tributaria non è materia di «alta» scienza ma di accurati modesti ragionamenti intorno agli effetti concreti dei diversi tipi possibili di imposta sulla condotta umana e meglio sarà” (Luigi Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria).
“Io non sono certo un fautore di mutamenti frequenti e improvvisati nelle leggi e nelle Costituzioni. Ritengo anzi che sia meglio sopportare eventuali imperfezioni non troppo gravi: in quanto, una volta che vengono alla luce, ci adattiamo ad esse e troviamo dei rimedi pratici per correggere le perniciose conseguenze” (Thomas Jefferson, simbolo delle istituzioni repubblicane in USA, circa 2 secoli fa).
“L’imposta che ognuno deve pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Il tempo del pagamento, il modo del pagamento, l’ammontare dovuto, tutto dovrebbe essere chiaro e semplice sia per ogni contribuente, come per qualsiasi altra persona.
Là dove così non si opera, ognuno il quale sia soggetto all’imposta è posto nella balia più o meno stretta dell’esattore, il quale può gravar la mano sui contribuenti sgraditi ovvero estorcere, colla minaccia all’aggravio, qualche regalo o mancia a proprio vantaggio. La incertezza dell’imposta incoraggia la insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di uomini, la quale è impopolare per se medesima, anche quando i suoi membri non siano né insolenti né corrotti. La certezza dell’ammontare che ognuno è chiamato a pagare è affare di così grande importanza in materia di imposta che un grado assai considerevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto in confronto ad un piccolissimo grado di incertezza” (Adam Smith, Wealth of Nations V, II, II, II).

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