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Lunedì, 21 aprile 2025

EDITORIALE

Ecco la lotta all’evasione che ci piace

/ Enrico ZANETTI

Venerdì, 4 febbraio 2011

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Il rapporto annuale della Guardia di Finanza (si veda “Guardia di Finanza: nel 2010, redditi non dichiarati per quasi 50 miliardi” del 1° febbraio) ha evidenziato imponenti recuperi di base imponibile, sia ai fini delle imposte sul reddito che ai fini IVA, generati da verifiche e controlli che hanno scovato quasi 4.500 falsi invalidi e falsi poveri, 8.850 “nuovi” evasori totali, nonché numerose frodi IVA. Tanto di cappello: questa è la lotta all’evasione fiscale che ci piace e che sosteniamo “senza se e senza ma”. Quella di tipo investigativo, che fa emergere il sommerso e il peggior malcostume, rispetto alla quale Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate riceveranno sempre il plauso da parte dei commercialisti italiani e di tutti i cittadini e imprese oneste di questo Paese.

Ci piace assai meno (e in alcuni casi non ci piace affatto) la lotta all’evasione di tipo burocratico e meccanicistico.
Quella che non si fonda sul lavoro investigativo di indagine, ma su presunzioni o su parametri statistici trasformati da utile strumento per selezionare le posizioni da controllare in strumento di diretto accertamento essi stessi. Quella che non si concentra tanto sul far emergere ciò che non viene dichiarato o sul reprimere fenomeni in cui vengono dichiarate operazioni in radice fittizie o inesistenti, quanto piuttosto su quello che viene dichiarato per poi procedere a disconoscimenti della deducibilità di costi e della detraibilità di imposte, basati talvolta su interpretazioni giuridiche quantomeno capziose, quando non addirittura su veri e propri presupposti metagiuridici, quali l’antieconomicità delle scelte imprenditoriali, o la criminalizzazione della scelta per il comportamento fiscalmente meno oneroso tra una serie di alternative assolutamente legittime che l’ordinamento giuridico mette a disposizione.

La prima è l’espressione di una lotta all’evasione che fa cultura e rende i contribuenti onesti (e i consulenti che li seguono) fiduciosi che, prima o poi, concittadini imbroglioni e “sedicenti maghi” del Fisco paghino il conto delle loro azioni. La seconda è invece l’espressione di una necessità di recuperare gettito che esaspera i rapporti tra Fisco e contribuenti sostanzialmente onesti, convincendo, coloro che si ritrovano oggetto di questo tipo di attenzioni, che conviene direttamente non dichiarare nulla, se quello che dichiarano finisce per essere usato sostanzialmente contro di loro (una sorta di “tutto quello che dichiarerai potrà essere usato contro di te”).

Ecco il punto: meno disquisizioni giuridico-interpretative su ciò che viene dichiarato (limitandole ai casi di palese e incontrovertibile errata o distorcente applicazione delle norme) e più azioni di controllo investigativo per scovare ciò che non viene dichiarato; meno presunzioni che invertono l’onere della prova e più efficacia nello scoprire elementi di prova; meno automatismi “a pioggia” e più volontà di individuazione delle singole posizioni a rischio da controllare; meno adempimenti sui controllati e più capacità di indagine da parte dei controllori.

Non è un caso, del resto, che il progressivo ampliamento dei poteri di indagine finanziaria da parte dell’Amministrazione finanziaria non sia mai stato oggetto di critiche da parte di chi, come i commercialisti italiani, ritiene invece alquanto opinabile la recente moltiplicazione di una serie di adempimenti sicuramente non privi di utilità ai fini della lotta all’evasione, ma, altrettanto sicuramente, non privi di onerosità per i contribuenti onesti e i consulenti scrupolosi che li seguono. Siamo infatti i primi a volere che l’Amministrazione finanziaria, quella civile come quella militare, sia messa nelle condizioni di poter svolgere il proprio lavoro, con adeguati poteri di indagine, scovando i cittadini e le imprese disoneste a vantaggio di tutta la collettività.
Ciò che negli ultimi tempi rende più frequenti le critiche, rispetto ai riconoscimenti da cui in questa occasione siamo con convinzione partiti nelle nostre riflessioni, è l’evidenza della crescente pressione operata sull’Amministrazione finanziaria perché si occupi di recupero di gettito prima che di lotta all’evasione. Una crescente pressione che, inevitabilmente, rischia di rendere meno attraente lo scrupoloso e difficile lavoro di indagine che richiede l’attività volta a scoprire ciò che non viene dichiarato al Fisco, a fronte dell’assai meno ostico lavoro di confutazione della correttezza di ciò che è stato invece dichiarato, ricorrendo all’uopo in modo “frettoloso” a presunzioni, automatismi e ricostruzioni apodittiche di manovre elusive.

Il tutto, non dimentichiamolo, in un contesto in cui il legislatore pone massima attenzione alla velocizzazione dei tempi della riscossione senza far nulla per una pari velocizzazione dei tempi della giustizia tributaria.
Se facessi parte dell’Amministrazione finanziaria, mi asterrei dallo sviluppare simili considerazioni: è evidente che il mio compito sarebbe applicare le norme approvate dal legislatore e gli indirizzi di obiettivo che ne discendono, non invece quello di commentarli. Se però vedessi qualcuno che, avendo altro ruolo, cercasse di portare all’attenzione della pubblica opinione i problemi che inevitabilmente sorgono quando si legge “lotta all’evasione”, ma si scrive “recupero di gettito”, sarei il primo a fare il tifo per lui.
E, al di là delle incomprensioni passate, presenti e magari anche future tra Amministrazione finanziaria e contribuenti, siamo convinti che, se davvero il nostro obiettivo non è la cassa a qualsiasi costo, ma la lotta all’evasione e il miglioramento del rapporto tra fisco e contribuente, non possa che essere così.

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