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Distinzione tra pubblicità e rappresentanza basata sugli obiettivi perseguiti

La gratuità assolve solo a una funzione di specificazione e ausilio dei connotati tipici

/ Luca FORNERO

Martedì, 16 settembre 2025

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Con l’ordinanza n. 25143/2025, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi delle spese di rappresentanza e dei principi distintivi rispetto a quelle di pubblicità.
In particolare, nella pronuncia si legge che “il criterio discretivo tra le spese di rappresentanza” e quelle “di pubblicità va individuato negli obiettivi perseguiti”, atteso che le prime sono sostenute per accrescere l’immagine della società e le possibilità di sviluppo, “senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite”, mentre le seconde hanno una diretta finalità promozionale dei prodotti e servizi commercializzati.

In altre parole, rientrano tra le spese di rappresentanza i costi di iniziative imperniate sul soggetto e orientate a potenziarne, quale patrocinatore o sovvenzionatore di eventi culturali, il grado di conoscenza, l’immagine e il prestigio fra potenziali e selezionati clienti, ancorché da esse possa derivare, collateralmente e di riflesso, un incremento delle vendite dei prodotti, mentre sono qualificabili di pubblicità gli oneri i costi che rispondono ad una finalità promozionale specificamente incentrata sui prodotti e compiuta attraverso un’attività reclamistica e organizzativa direttamente calibrata sulla loro vendita.

Quale elemento di novità rispetto alle precedenti ordinanze nn. 14049 e 10781 (entrambe del 2023) che avevano in pratica sancito lo stesso principio, i fatti in causa riguardano i periodi d’imposta 2013 e 2014. Pertanto, le motivazioni dei giudici considerano la disciplina vigente dal 2008, in base alla quale le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti a determinati requisiti di congruità e inerenza, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse (art. 108 comma 2 del TUIR).

In proposito, il DM 19 novembre 2008 (attuativo dello stesso art. 108 comma 2) dispone che sono spese di rappresentanza inerenti, sempreché effettivamente sostenute e documentate, le spese per erogazioni di beni e servizi:
- a titolo gratuito;
- effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni;
- il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore.

Tra i diversi criteri elaborati negli anni dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza, atti a distinguere le spese di rappresentanza da quelle di pubblicità (o, comunque, da altre spese inerenti integralmente deducibili), il citato DM ha valorizzato quello basato sulla “gratuità”.

Le spese di rappresentanza devono quindi essere caratterizzate dalla mancanza di:
- un corrispettivo da parte dei destinatari di una determinata prestazione;
- un obbligo di dare o facere a carico degli stessi.

Devono invece considerarsi di natura diversa da quelle di rappresentanza (e, quindi, deducibili secondo le regole generali) le spese che prevedono a carico dell’altra parte impegni a fare o permettere oppure obbligazioni derivanti da accordi contrattuali (anche nuovi e complessi).

Lo stesso DM reca, da un lato, un elenco esemplificativo di oneri qualificabili come spese di rappresentanza e, dall’altro, un elenco di oneri che, invece, non sono qualificabili come tali.
L’attuale disciplina dovrebbe quindi porre in secondo piano criteri distintivi differenti da quello basato sulla gratuità, come quelli degli obiettivi perseguiti o dell’oggetto del messaggio.

In maniera innovativa rispetto a tale ricostruzione, invece, i giudici di legittimità sostengono che il discrimen tra pubblicità e rappresentanza deve guardare agli obiettivi perseguiti, in aderenza alla norma primaria e alla nozione di spesa di pubblicità emergente dalla giurisprudenza unionale. In tale ottica, le indicazioni del DM 19 novembre 2008 “ben possono assolvere una funzione di specificazione ed ausilio dei connotati tipici delle spese di rappresentanza, tra cui, comunemente, la gratuità”.

In altri termini, l’elemento dirimente per qualificare la spesa di rappresentanza è la natura e la funzione della spesa, mentre la gratuità integra un indice valutabile ai fini di una ricostruzione fattuale obiettiva e completa.

Pertanto, secondo la Suprema Corte, non corrisponde alla realtà né normativa né giurisprudenziale italiana la supposta esistenza di una prassi nazionale che fondi la distinzione tra spese di rappresentanza e pubblicità non sulla trasmissione di un messaggio sull’immagine della società oppure sul prodotto aziendale, ma sul carattere gratuito della prestazione di servizi.

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