A chi giova l’abolizione dell’esame di Stato?
Caro Direttore,
ho letto con attenzione l’intervento del collega Presidente di Milano, Alessandro Solidoro, sui principali temi oggi alla ribalta: le professioni, la qualità e il merito (si veda “Solidoro: «Troppa demagogia sulle professioni, non si parla mai di merito»” dello scorso 6 luglio).
Non posso che aderire alle sue osservazioni.
All’indomani del singolare convegno bocconiano, che già destava in me qualche perplessità al momento del suo annuncio risvegliando le reminiscenze di un latino liceale, trovo conferma di un approccio al tema delle professioni disinformato, madido di affermazioni apodittiche, di maniera, prive di supporto documentale e oltremodo offensive del comune senso del rispetto altrui, che pretendono di legittimare la loro validità unicamente in un non meglio identificato pensiero europeistico di liberalizzazione.
Un vento sicuramente affascinante per chi con esso gradisse rinfrescarsi, abdicando magari a una più puntuale conoscenza dell’argomento.
Autorevoli esponenti del pensiero culturale e politico della nostra Europa hanno più volte espresso il convincimento che le professioni rappresentino un capitale intellettuale che ogni nazione deve preservare.
Resta allora da intendere e condividere quale sia il significato del termine “professione”.
Reputo che nel nostro impianto costituzionale vi sia una chiara previsione di identità delle professioni che l’ordinamento positivo delle leggi dello Stato ha successivamente identificato, sia nei percorsi di accesso sia nelle competenze che ne discendono.
Quali interessi hanno inteso tutelare sia il Legislatore costituzionale che quello nazionale successivo, quelli di coloro che accedono alle professioni o quelli di coloro che alle medesime si rivolgono?
Ritengo sia corretto affermare entrambi, senza pregiudizi di sorta.
Da un lato, colui che accede a una professione secondo i percorsi stabiliti dalle leggi dello Stato italiano, e quindi privi di meccanismi autoreferenziali o di autodeterminazione come a certo pensiero riformatore pare piaccia dire, ha il diritto di veder riconosciuto e tutelato il compimento del percorso che ha fatto. Dall’altro, colui che alle professioni si rivolge deve aver soddisfazione, certezza e garanzia del bisogno di conoscenza specifica di cui è portatore. Di entrambi questi interessi di natura pubblica lo Stato deve rendersi garante.
Questo oggi intende garantire anche la prova dell’esame di Stato, che a taluni pare sia gradito abolire senza poi saperne dire in concreto il perché, quasi fosse una barriera architettonica da abbattere per l’accesso a una professione che, nel caso la nostra, non ha davvero vincoli di accesso, salvo un percorso di abilitazione che possa garantire che chi parla sappia quel che dice e chi ascolta possa trovar risposta adeguata alla domanda.
E questo non pare davvero un vincolo o un limite che anche il miglior spirito riformatore europeistico possa aver interesse ad abbattere.
Torno quindi alla domanda originaria: cui prodest?
Davvero, non lo so. So per certo che non giova né al cittadino né a chi vuole lavorare svolgendo una professione.
Forse a qualcun altro che tenta di convincere l’uno, l’altro o magari entrambi per carpirne fascinosamente il consenso?
La domanda sorge spontanea.
Massimo Scotton
Presidente ODCEC di Genova
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