Se le regole per l’accertamento fiscale diventano quelle dell’Inquisizione
Caro Direttore,
il più famoso manuale di diritto e procedura penale dell’Inquisizione, il Malleus Maleficarum, prevedeva che la sospettata venisse interrogata sotto tortura: se confessava, la si mandava al rogo (quale prova migliore di un reo confesso?); se, nonostante gli atroci tormenti, non confessava, ciò era la prova evidente dell’operare di forze oscure che le consentivano una resistenza sovrumana e quindi, di solito, la si mandava al rogo.
Fu soltanto con l’Illuminismo che si fece strada l’idea del nemo tenetur se detegere, che trovò la sua codificazione nell’art. 14, § 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966 (ratificato in Italia con L. 881 del 25 ottobre 1977): «Ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo alle seguenti garanzie: (…) g) a non essere costretto a deporre contro se stesso od a confessarsi colpevole». Sulla stessa scia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha da sempre riconosciuto che tale diritto sussista in base all’art. 6 CEDU, anche in materia amministrativa fiscale, allorché sia in gioco l’irrogazione delle sanzioni, e ad essa fa eco l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
In Italia il diritto in questione viene fatto discendere dal diritto di difesa ex art. 24 Cost. e dalla presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, Cost., nonché da un’interpretazione sistematica del diritto penale e processuale penale, con valenza peraltro non solo penalistica, ma generale, al punto che la Suprema Corte a sezioni unite ha affermato che tale diritto vale anche, ad esempio, nell’ambito del procedimento disciplinare dei professionisti.
Il diritto al silenzio del sospettato, indagato o imputato implica anche, pacificamente, il diritto a dire “mezze verità” e, entro certi limiti (costituiti dalla punibilità della calunnia e dell’auto-calunnia, ma non dell’auto-favoreggiamento), il “diritto alla menzogna”, senza che silenzio o menzogna possano dar luogo ad alcuna conseguenza sfavorevole per il soggetto esaminato.
Assolutamente aberrante risulta dunque essere l’art. 11, comma 1, del Decreto “Salva Italia” laddove, interpretato in pendant con la relazione, punisce con la sanzione penale non solo l’esibizione di documenti falsi ai verificatori (in sé ineccepibile, salvo alcuni dubbi sul falso ideologico sui cui non è il caso di indugiare) ma, soprattutto, il fornire “dati e notizie non rispondenti al vero”, in tale ultimo caso soltanto se, a seguito dell’attività di verifica, si scopre un reato fiscale.
Ma quel che è peggio è che di fronte al verificatore, qualora si configuri un reato tributario, si ha l’obbligo di “dire tutta la verità e nient’altro che la verità”. Cioè, tanto per capirci, l’indagato per reati fiscali può, nell’esercizio del suo diritto inviolabile di difesa, tacere o raccontare al magistrato (inquirente o giudicante) mezze verità o perfino menzogne, ossia “dati e notizie non rispondenti al vero”, senza alcuna conseguenza negativa. Ma, se a interrogarlo è il verificatore fiscale, guai a lui se esercita tale diritto. In alternativa, provi il contribuente ad avvalersi della facoltà di non rispondere al verificatore: ecco che in sede amministrativa fioccano sanzioni, decadenze probatorie, gli studi di settore diventano prova inconfutabile e simili accidenti.
Dice la relazione al decreto che «in moltissimi casi le informazioni sono fornite dallo stesso contribuente controllato o da soggetti ad esso collegati per convergenza di interessi economici, e purtroppo sono caratterizzate da mendacio, finalizzato a evitare la scoperta dell’evasione», per cui ecco che la norma punisce tale comportamento. Diceva il Malleus che «in generale le streghe per lo più negano e da questo nasce un sospetto ancor più forte che se dicessero…».
La norma inizia infatti con “chiunque”, per cui non si tratta di reato proprio del contribuente, ma di qualsiasi soggetto: certamente ciò vale per un terzo interrogato sulla posizione del contribuente e non è da escludersi che qualche funzionario zelante denunci anche il professionista che rappresenta il contribuente, se non gli ha raccontato tutta la verità sul suo cliente.
E poi, come disse Ponzio Pilato (in effetti è l’unica cosa sensata che abbia detto), “Quid est veritas?” (“Cos’è la verità?”). Qualunque rappresentazione narrativa della realtà che trascuri un dettaglio, un particolare, è potenzialmente “non rispondente al vero”. Tant’è che quei fini filosofi dei commercialisti-revisori si sono inventati il concetto di materialità, per cui la “rappresentazione veritiera e corretta” del bilancio non è inficiata se il dato o l’informazione “non rispondente al vero” non è significativa. Ma la novella fiscale non contiene soglie di materialità di alcun tipo.
Si tratta di una norma che è, per quanto sopra detto, manifestamente incostituzionale e se non la farà “saltare” la Consulta (sempre più cieca dinnanzi alla ragion fiscale), lo faranno certamente la Corte di Giustizia o quella di Strasburgo.
Nel frattempo, lo spirito dell’Inquisizione aleggia tra noi e la prima volta che mi troverò a rappresentare un contribuente farò mettere a verbale una filastrocca di due pagine, in cui dirò che non assumo alcuna responsabilità sui dati e sulle informazioni che fornisco, che mi sono state trasmesse dal cliente senza che io abbia potuto (né io abbia il dovere di) svolgere alcuna indagine della loro veridicità o completezza o “rispondenza al vero”; che sto esercitando la funzione di difensore e quindi che mi avvalgo delle relative prerogative e immunità, anche in ordine al segreto professionale; che in ogni caso contesto la costituzionalità della norma e la manifesta violazione della CEDU e della Carte UE; e via dicendo.
Se poi ciò non sarà sufficiente e verrò denunciato e verrà aperto un procedimento disciplinare nei miei confronti, sono certo, caro Direttore, che potrà contare sulla simpatia dei Colleghi, nel senso originale greco di “patire insieme”.
Stefano Marchese
Consigliere CNDCEC delegato alla Deontologia
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