Per il collegio sindacale ha sempre un peso l’autovaluzione del professionista
Caro Direttore,
l’editoriale di lunedì a firma di Giancarlo Allione (si veda “Commercialisti tra proroghe e collegio sindacale” del 23 maggio) ha alimentato un costruttivo dibattito sul “collegio sindacale”.
Sul tema ritengo siano stati estremamente utili anche gli interventi dei colleghi dott. Iadanza (si veda “Si dovrebbe prendere posizione contro chi interpreta male il ruolo di sindaco”) e dott. Lumi (si veda “Sul collegio sindacale non cerchiamo all’esterno colpe interne alla categoria”), che, con argomentazioni diverse, hanno evidenziato contorni di assoluta delicatezza per la nostra “professione”.
Pur condividendo gran parte delle analisi emerse, sono portato a fare qualche riflessione, posto che il problema del rinnovo delle cariche e del cumulo degli incarichi – ma anche e soprattutto della funzione di sindaco – è da me particolarmente sentito.
Ritengo, infatti, che la tematica vada affrontata con efficacia, ma sono molteplici gli ambiti che vanno esaminati e messi in discussione. E non si tratta solo di aspetti strettamente tecnici, che pure hanno un certo rilievo nell’ambito della discussione, ma anche e soprattutto di profili che ineriscono alla convenienza e all’etica.
Per quel che concerne gli aspetti specificatamente tecnici, è la legge ad imporre che la funzione sia svolta dal sindaco con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, il che non equivale a dire con la diligenza dell’uomo medio, bensì con la diligenza del professionista che ha ben presente le specificità dell’incarico tenendo conto anche della tipologia della società.
Partendo dall’assunto che il sindaco è un professionista, e in quanto tale svolge il proprio incarico, la legge tratteggia un sistema che declina le funzioni, i doveri e i poteri ad esso riconosciuti anche in ragione della complessità dell’incarico. Per cui, oltre agli obblighi contenuti nelle regole di base e nei precetti che individuano una serie di doveri da svolgere necessariamente in corso d’esercizio, esistono ulteriori adempimenti doverosi che il collegio deve porre in essere in casi specifici, con sensibile aggravio della quantità e della qualità del lavoro. Sarei quindi portato a non sminuire, come qualcuno tenta di fare, queste due “dimensioni” che il sindaco è chiamato continuamente a definire.
Il che renderebbe non solo opportuno, ma assolutamente imprescindibile che il collegio, prima di accettare un incarico, valuti attentamente la concreta possibilità di adempierlo con quella diligenza qualificata di cui si è detto in apertura, e cioè con modalità che siano adeguate all’entità dell’incarico stesso. È intuitivo come in tale valutazione si dovrà tener conto anche della struttura e dell’organizzazione di cui si avvale il sindaco, ferma restando la circostanza che è quest’ultimo a rispondere dell’operato dei propri ausiliari e dipendenti.
Le considerazioni finora svolte sono trasfuse nelle nostre Norme di comportamento. E mi sembra che la “professione” e questo Consiglio nazionale non siano rimasti inerti sul tema, né abbiano avallato prassi di dubbia correttezza.
Si badi bene che abbiamo scritto che siamo efficienti solo se riusciamo a valutarci in modo imparziale e indipendente, considerate l’enorme mole di attività e le irragionevoli responsabilità che ci vengono addossate.
Di talché abbiamo suggerito ai colleghi di rinunciare al ventunesimo incarico qualora non siano in grado di fronteggiare adeguatamente e decorosamente i venti precedentemente assunti, e di darne, comunque, tempestiva comunicazione agli altri componenti dell’organo che, va ricordato, collegialmente opera e collegialmente risponde.
In tale ottica, è stato precisato che il limite dei venti incarichi non è assoluto, nel senso che il professionista attraverso un’autovalutazione responsabile potrà decidere, per effetto della complessità o dell’ampiezza dell’incarico (si pensi ad esempio al collegio incaricato della revisione legale), di porre la sua personale asticella ben al di sotto, per tutela sua, della società e degli stakeholder.
Di più non è concesso fare, in assenza di una disposizione di legge che possa avallare la ragionevolezza di un canone deontologico, quale è quello contenuto nella Norma di comportamento 1.3.
In definitiva, è lasciata alla sensibilità del professionista la valutazione dell’accertamento del grado di diligenza e dell’impegno richiesto per svolgere l’incarico in modo adeguato, posta l’importanza del ruolo e del decoro della professione, principi a cui tutti dovremmo credere e tenere.
Raffaele Marcello
Consigliere nazionale dei commercialisti con delega ai Sistemi di controllo
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