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LETTERE

Nella monocommittenza professionale tutela apparente e subordinazione reale

Giovedì, 15 maggio 2025

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Gentile Redazione,
sono un dottore commercialista che lavora da anni in regime di monocommittenza.

In un’epoca in cui le professioni stanno attraversando profonde trasformazioni, si parla sempre più spesso di “tutele” per i collaboratori professionali esclusivi. Ma quando si leggono nel dettaglio alcune delle misure proposte, si scopre che dietro la retorica della garanzia si nascondono in realtà limitazioni, squilibri e forme nuove – e più raffinate – di subordinazione non riconosciuta.

Alcune previsioni appaiono persino paradossali. Si stabilisce, ad esempio per gli avvocati, che in caso di gravidanza o malattia il rapporto possa essere sospeso fino a 180 giorni, senza alcuna forma di compenso, lasciando il collaboratore esposto proprio nei momenti di maggiore fragilità personale.

A rendere il quadro ancora più critico, si aggiunge la possibilità di esclusione automatica dopo sei mesi di inattività, con indennizzo calcolato sulla media dei compensi percepiti. Una norma che consente al committente di disimpegnarsi facilmente, senza motivazioni, né reali tutele per il professionista.

Tutto questo avviene in un contesto in cui l’evoluzione naturale del mercato delle professioni porta alla progressiva scomparsa del modello individuale: non tutti i tecnici, anche se validissimi, potranno o vorranno aprire il proprio studio. Alcuni rimarranno all’interno di strutture più grandi come collaboratori stabili, altri cresceranno fino a diventare soci. Ma tra questi due estremi, serve una cornice giuridica coerente con la realtà: non una zona grigia in cui si lavora come subordinati senza le relative tutele.

Recentemente, la Cassazione (sentenza n. 2874 del 4 novembre 2024) ha riconosciuto che un rapporto esclusivo, continuativo e organizzato, pur se formalmente autonomo, può integrare gli estremi della subordinazione. È un passo importante, che rischia però di essere vanificato se alla giurisprudenza non fa seguito una regolamentazione coerente. Invece, da parte di alcuni rappresentanti istituzionali si continua a dichiarare – con una certa enfasi – che “abbiamo finalmente introdotto tutele, ma ci sono doveri oltre ai diritti”. Frasi che sembrano più funzionali a contenere le rivendicazioni della parte debole, che non a riequilibrare davvero un rapporto profondamente asimmetrico.

Mi chiedo allora: chi siede davvero all’Agorà con gli Ordini e le Unioni? Si confrontano tra loro solo i datori di lavoro, cioè chi richiede queste monocommittenze? Oppure sono ascoltati anche i giovani praticanti, i collaboratori, i tecnici che portano avanti ogni giorno la macchina dello studio professionale senza mai apparire? È troppo comodo invocare dialogo e concertazione se al tavolo siedono solo le parti forti. Il Consiglio nazionale deve cercare di tutelare i giovani!

A peggiorare il quadro, vi è una totale assenza di formazione previdenziale. Nessuno spiega a chi inizia – o prosegue – un rapporto professionale continuativo quali saranno le conseguenze pensionistiche delle sue scelte contributive. Qualcuno sa realmente cosa significa versare il minimo del 12% o, magari, il 30% del reddito annuo? Qual è l’impatto concreto sulla futura prestazione pensionistica? Nessuno forma o informa. E chi versa poco oggi – spesso per necessità – domani riceverà noccioline.

Stesso discorso per malattie e infortuni: la gran parte dei collaboratori esclusivi è del tutto scoperta se non per i grandi interventi. Nessuno consiglia, ma velatamente propone, una copertura assicurativa obbligatoria o convenzionata, che dovrebbe essere la base per chi lavora con continuità e dipendenza economica. In queste condizioni, anche un imprevisto di breve durata può diventare una voragine finanziaria.

Alla fine, il lordo pattuito sembra convenire solo a una parte: al committente. Il collaboratore, magari attratto da un apparente guadagno netto più elevato (complice il regime forfetario), si trova a rinunciare a ogni tutela reale: ferie, malattia, tredicesima, TFR, previdenza, sicurezza. E se la carriera non lo porta verso una futura partnership nello studio, resterà con ben poco in mano: un reddito netto leggermente più alto per qualche anno, in cambio di nessuna protezione per il futuro.

I giovani che si affacciano alla professione sembrano averlo già compreso. Non è un caso che, già in sede di colloquio, molti praticanti pongano domande su orari di lavoro, ferie, malattia: temi che in passato sarebbero stati quasi tabù. Non tutti sono più disposti a sacrificarsi h24 per la professione, e ciò che manca spesso nei colloqui è proprio una chiara definizione dei percorsi di carriera e delle prospettive di crescita.

Se si continua su questa strada, non si sta offrendo una nuova tutela ai professionisti, ma si rischia di costruire un modello di schiavitù intellettuale, moderno nella forma, ma antico nella sostanza.
Un rapporto esclusivo, continuativo, organizzato, non può che essere considerato per quello che è: una forma di lavoro subordinato, che va riconosciuta e tutelata come tale.


Lettera firmata


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