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LAVORO & PREVIDENZA

Antisindacale ogni condotta volta a impedire o limitare libertà e attività sindacale

Può configurarsi una condotta antisindacale ogni volta in cui il datore faccia un uso distorto della sua libertà negoziale

/ Federico ANDREOZZI

Mercoledì, 12 novembre 2025

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La condotta sanzionata dall’art. 28 della L. 300/70 è costruita come fattispecie strutturalmente aperta, che può essere integrata da ogni condotta idonea a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale oppure volta ad ostacolare il libero esercizio del diritto di sciopero.
La Cassazione ha ribadito e dato applicazione a tale principio, con due ordinanze depositate ieri, la n. 29737 e la n. 29738.

Con la prima, i giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere una controversia vertente sulla valutazione circa l’antisindacalità della condotta datoriale, consistita nell’aver disapplicato – per una parte dei dipendenti –, il CCNL Metalmeccanici prima della sua naturale scadenza, applicando agli stessi il CCNL Terziario per il tramite di un “accordo di armonizzazione”, sottoscritto con altre sigle sindacali.

Confermando le pronunce dei giudici di merito, che avevano dichiarato antisindacale la condotta dell’impresa, quelli di legittimità chiariscono come, per quanto attiene ai contratti collettivi di lavoro, la possibilità di disdetta spetti unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che – generalmente – provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta stessa. Pertanto, al datore di lavoro non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, con la conseguenza che non è legittima la disdetta unilaterale da parte di quest’ultimo, nel caso in cui il contratto abbia un termine di scadenza. Questo principio, spiega l’ordinanza, non viene meno neanche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo ancora vigente venga sostituito da un altro, a meno che non vi sia il consenso delle parti collettive originarie stipulanti del medesimo. Quindi, la condotta tenuta dall’impresa nel caso di specie si traduce in un comportamento antisindacale, in quanto lesiva delle prerogative dell’organizzazione sindacale stipulante l’accordo disapplicato.

Diversa è la fattispecie affrontata dalla Suprema Corte con la seconda pronuncia, la n. 29738/2025.
La controversia verteva, infatti, sulla legittimità della condotta dell’impresa, che aveva omesso di coinvolgere l’organizzazione sindacale ricorrente nella fase delle trattative contrattuali: per anni, era stato sottoscritto un accordo diretto a regolare, tra le altre cose, la concessione e il godimento di permessi sindacali retribuiti; nel dettaglio, si trattava di accordi di durata annuale, di volta in volta rinnovati di concerto tra le parti, in virtù della previsione per cui “[l]e parti prevedono di effettuare un incontro entro la data di scadenza”, contenuta anche all’art. 8 dell’ultimo accordo. In sede di rinnovo, la società aveva però manifestato la volontà di ridurre la durata dell’accordo a sei mesi, dichiarando altresì la proposta non trattabile, chiudendo così a qualsiasi interlocuzione.
Anche in questo caso, confermando quanto statuito dal giudice di seconde cure, la Cassazione dichiara l’antisindacalità della condotta datoriale.

In prima battuta, i giudici di legittimità sottolineano come non sussista un obbligo in capo all’impresa di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le OO.SS. nonché come, al contempo, rientri nell’autonomia negoziale riconoscere alla parte datoriale la possibilità di sottoscrivere nuovi contratti con sindacati anche diversi da quelli che hanno trattato e firmato il precedente; inoltre, non vige il principio della necessaria parità di trattamento tra le varie sigle sindacali, per cui il datore di lavoro non ha il dovere assoluto di aprire le trattative per la stipula di contratti collettivi con tutte le organizzazioni.

Al tempo stesso però, chiarisce la Suprema Corte, può configurarsi una condotta antisindacale nell’ipotesi in cui il datore faccia un uso distorto della sua libertà negoziale, tale da generare un’apprezzabile lesione della libertà dell’organizzazione sindacale esclusa. Da ciò discende che un obbligo a trattare possa senz’altro nascere da una fonte convenzionale, cioè da un accordo con cui le parti collettive si vincolano a trattare: nel caso di specie, la presenza del menzionato art. 8 dell’accordo imponeva alle parti di trattare secondo buona fede, al fine di valutare, nella reciproca libertà negoziale, i presupposti per un ulteriore rinnovo alle stesse (o diverse) condizioni ovvero anche a prendere atto dell’impossibilità di giungere ad una nuova intesa. Anche in questo caso, quindi, la Cassazione dichiara l’antisindacalità della condotta datoriale, a fronte del comportamento tenuto dall’impresa al tavolo delle trattative, tale da ledere i principi di buona fede e correttezza che devono governare questa fase.

Sul medesimo tema, il 20 novembre verrà pubblicato un approfondimento sulla rivista La Consulenza del Lavoro.

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