E così lo scudo fiscale italiano va agli evasori greci
Il salvataggio della Grecia da parte degli altri Paesi dell’Unione europea è senza dubbio una scelta obbligata, una volta ottenute adeguate garanzie in merito al fatto che questi aiuti verranno accompagnati da una politica “lacrime e sangue” del governo ellenico, per mettere un freno agli sprechi incontrollati nella spesa pubblica e alla dilagante evasione fiscale.
Ciò non di meno, è doveroso sottolineare come l’entità della somma che l’Italia mette a disposizione del piano di salvataggio, 5,5 miliardi di euro, corrisponde nella sostanza a quanto lo Stato ha incassato grazie al terzo scudo fiscale che, proprio nei giorni scorsi, ha chiuso la sua seconda (e speriamo ultima) finestra di operatività.
In pratica, abbiamo prestato agli evasori greci (gli unici che superano gli evasori italiani nella classifica mondiale dell’economia sommersa) l’incasso che eravamo riusciti a ottenere dagli evasori italiani, a prezzo di un provvedimento che, giustamente, ha prodotto non pochi mal di pancia, perché oggettivamente ha rappresentato un pesante tributo di legalità per tutti i contribuenti onesti.
Quello che non torna, o comunque torna assai poco, è che un Paese costretto a varare il terzo scudo fiscale in meno di dieci anni sia finanziariamente in grado di partecipare a piani di aiuti destinati a salvare altri Stati.
L’adozione di provvedimenti come lo scudo fiscale, oppure altre sanatorie o condoni fiscali, dovrebbe far presumere che le finanze del Paese che le adotta sono ad un passo dal tracollo.
Se invece non è così e l’utilizzo reiterato nel tempo di questi strumenti si trasforma soltanto in un modo veloce per fare cassa alla bisogna, allora è evidente che siamo di fronte ad un utilizzo spregiudicato di strumenti che minano alle fondamenta la credibilità del sistema tributario.
Prendere atto che gli introiti garantiti da provvedimenti come lo scudo fiscale possono tornare utili per tamponare le falle aperte dagli sprechi e dalle inefficienze di altri Paesi europei, oltre che per i nostri, è tutt’altro che consolante.
Forse bisognerebbe seriamente riflettere in merito all’opportunità di prevedere che provvedimenti di natura condonatoria in ambito fiscale possano in futuro venire approvati dal parlamento solo con le maggioranze qualificate richieste per le modifiche delle norme di rango costituzionale.
Solo così se ne ripristinerebbe quella natura eccezionale e “da ultima spiaggia” che dovrebbero avere, ma che, alla luce di questi ultimi venti anni, non è stata attribuita loro da governi e maggioranze parlamentari capaci di dimostrare grande pragmatismo quando si tratta di fare cassa, assai meno quando si tratta di chiedere sacrifici diversi da quelli che hanno per oggetto il principio di legalità.