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LETTERE

Sulla tassazione di rendite e patrimoni i conti non tornano

Lunedì, 3 gennaio 2011

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Caro Direttore,
ho letto i tuoi editoriali sui temi della tassazione delle rendite finanziarie e di un’ipotetica imposta patrimoniale (si vedano “Nessun rimpianto se salta la cedolare secca sulle locazioni immobiliari” del 15 dicembre e “Anche l’OCSE apre alle imposte patrimoniali” del 21 dicembre 2010), e il dibattito scaturito. Condivido la tua opinione sulla necessità di una lievitazione della tassazione sulle rendite finanziarie e non troverei scandalosa l’introduzione di un’imposta patrimoniale, l’unica prospettiva concreta per rimpinguare nel breve termine le casse dello Stato. È iniquo che nel nostro Paese si paghi il 12,50% di imposte su cedole obbligazionarie e capital gain, quando il resto dei redditi sconta aliquote medie doppie o triple. La questione non è se sia giusto o meno alzare quel 12,50% e se sia altresì giusto pensare ad una tassazione dei patrimoni. Il problema è provare a capire quale risultato pratico potrebbe scaturirne.

Durante l’ultimo governo Prodi il tanto vituperato vice-ministro Visco aveva preannunciato la crescita al 20% dell’aliquota del 12,50%. Ne era nata una commissione di studio governativa, che doveva anche stimare le conseguenze di una simile manovra: al termine dei suoi lavori, da giugno a settembre del 2006, concluse che gli effetti sul gettito nazionale sarebbero stati piuttosto modesti (1 o al massimo 2 miliardi di euro all’anno). Molteplici le ragioni: una consistente fetta del debito pubblico è detenuta all’estero o da soggetti lordisti, così come una buona parte delle obbligazioni quotate; vi sarebbe poi il contro-effetto della riduzione dal 27% al 20% del prelievo sugli interessi prodotti dai depositi bancari; i rendimenti dei comparti obbligazionari non sono mai stati così bassi come negli ultimi 3 anni e sul fronte dei guadagni di Borsa i fondi hanno accumulato notevoli scorte di minusvalenze pregresse.

Eppure, tu sostieni che l’innalzamento del prelievo sulle rendite finanziarie, al di là di rispondere ad un senso di equità (su cui, ripeto, siamo pienamente d’accordo), dovrebbe consentire la riduzione delle aliquote IRPEF sui redditi da lavoro al di sopra di una certa soglia. Ma sei sicuro che ciò sia veramente possibile? Con un miliardo all’anno di maggiori entrate fiscali, possiamo davvero – come hai auspicato – abbassare in maniera apprezzabile le aliquote IRPEF sui redditi da 50.000, 70.000 o 100.000 euro all’anno?
Azzardo una grezza controprova, ipotizzandomi detentore di un certo patrimonio finanziario: se ho 1 milione investito in obbligazioni, mi rende a far tanto 30mila euro all’anno; alzare dal 12,50 al 20% il prelievo su questi interessi porterebbe nelle casse dello Stato 2.250 euro; ora, si può presumere che se ho messo da parte 1 milione guadagnerò 200mila euro lordi all’anno; e cosa sono 2.250 euro su tale reddito? L’1% circa.

Tu mi dirai, abbassiamo l’IRPEF di un punto percentuale allora: meglio di niente. Ma io ti replico: intanto l’1% non fa chissà quale effetto mediatico (non lo ha fatto nemmeno la riduzione di 5,5 punti dell’IRES disposta nel 2007, che pure ha arricchito – e non di poco – i bilanci di molte società nostre clienti), ma soprattutto non credo si possa ipotizzare che tutti i lavoratori assoggettati ad IRPEF su redditi medio-alti abbiano 1 milione messo via in banca; anzi, credo che solo una minima parte di questi ce l’avrà. Mi assale dunque il timore che il tuo teorema “alziamo le tasse sulle rendite finanziarie per abbassarle sui redditi da lavoro” non funzioni come vorremmo.

Per analoghe ragioni, credo che una tassazione patrimoniale una tantum (del tipo dello storico prelievo del 6 per mille sui depositi) e persino l’introduzione di una patrimoniale a regime (che potrebbe comunque essere adottata con un’aliquota dello 0,5% o giù di lì, pena la rivolta nel Paese) non porterebbero risorse sufficienti a permettere di abbassare l’IRPEF di qualcosa di veramente significativo (penso a tagli intorno ai 5 punti). Per un simile obiettivo servirebbero mutazioni epocali, che vanno ben al di là del pur doveroso incremento della tassazione su rendite e patrimoni, ma che probabilmente non appartengono al DNA della nostra Nazione. Hai fatto giustamente notare che il pacifico godimento dei patrimoni ha un prezzo sociale, ricordandoci che in Venezuela non ci si può rilassare troppo a contare i propri soldi. Senza andare a Caracas, però, basta un giro nelle periferie del Nord-est, per vedere svariati possidenti asserragliati nello loro ville non molto diversamente dai loro colleghi caraibici.

Nel frattempo, le volanti della Polizia hanno il serbatoio vuoto e le cricche hanno le tasche piene. Temo quindi che per abbassare la pressione fiscale su chi lavora – e consentire a chi ha messo da parte dei patrimoni di goderseli serenamente – ci vogliano ben altri rimedi, che non siano soltanto la giusta aliquota al 20% sulle rendite finanziarie ed un’impopolare quanto necessaria imposta patrimoniale: primo fra tutti, far spendere meno e meglio allo Stato (e, non ultimo, far rubare meno a chi amministra il denaro pubblico).

Mario Iadanza
Ordine dei Dottori commercialisti ed esperti contabili di Treviso

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