Tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto da valutare caso per caso
In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con l’esigenza del datore di lavoro di valutare, in modo adeguato, la sequenza nel complesso degli episodi morbosi del lavoratore per giungere a una valutazione di compatibilità della presenza del lavoratore medesimo in rapporto agli interessi aziendali.
La Cassazione ribadisce questo principio con la sentenza n. 7849 depositata ieri, con cui ha rigettato l’impugnazione proposta dal lavoratore avverso il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto.
Nel caso di specie, tra la maturazione del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento era intercorso un periodo di tempo di quattro mesi, durante i quali il lavoratore era tornato in servizio, ma aveva di fatto lavorato solamente per venti giorni a causa di ulteriori periodi di malattia e assenze a vario titolo.
La Suprema Corte ha quindi ritenuto che il predetto lasso di tempo pari a quattro mesi costituisse un arco temporale assolutamente compatibile con la necessità, per il datore, di valutare in concreto il margine di riutilizzo della prestazione del dipendente in questione all’interno del complesso aziendale, essendo le assenze del lavoratore perdurate anche dopo la maturazione del periodo di comporto. È stata pertanto ritenuta legittima la scelta del datore di rinviare la decisione sul recesso, senza che ciò potesse costituire un indice di una qualche volontà di soprassedervi.
La valutazione sulla tempestività del recesso, da compiere caso per caso, secondo la Cassazione è riservata al giudice di merito, che dovrà considerare a tal fine la data in cui il superamento del periodo di comporto si è perfezionato, le dimensioni dell’azienda e l’effettiva durata della prestazione resa dal lavoratore al suo rientro.
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