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Cassazione in tilt sulle somme ricevute dall’associato che recede dallo studio professionale

Emergono incertezze sull’applicazione dell’art. 20-bis del TUIR e sulla qualificazione delle somme percepite per la cessione della clientela

/ Giulia LUBRANO

Venerdì, 1 agosto 2025

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Negli atti costitutivi degli studi professionali, è frequente la prassi di inserire delle clausole che regolano il recesso dell’associato.
Spesso è prevista, a favore di quest’ultimo, l’erogazione di una indennità, che si compone di una quota corrispondente al conferimento iniziale e di una quota di compensi che ha la funzione di valorizzare il ruolo ricoperto dal professionista nello studio fino al recesso.

Per quanto riguarda la tassazione dell’indennità in capo all’associato, è opinione condivisa che si applichi l’art. 20-bis del TUIR, secondo cui le somme attribuite ai soci in caso di recesso si considerano redditi di partecipazione, da ricomprendere nella categoria reddituale da cui traggono origine. La somma percepita dall’associato concorre quindi alla formazione del reddito di lavoro autonomo, per la sola quota che compone la differenza da recesso, ossia la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle quote annullate. Ciò in virtù del rinvio dell’art. 20-bis all’art. 47 comma 7 del TUIR. È inoltre applicabile il regime di tassazione separata ex art. 17 comma 1 lett. l) del TUIR (ris. Agenzia delle Entrate n. 142/2008).

Sul tema, tuttavia, si sono registrati interventi della giurisprudenza che non appaiono condivisibili.
Un’isolata (a quanto consta) pronuncia di legittimità sembrerebbe negare l’applicabilità dell’art. 20-bis del TUIR alle somme corrisposte all’associato in sede di recesso da uno studio legale. La Cassazione n. 25191/2024 ha infatti rigettato la censura di illogicità e contraddittorietà della motivazione posta alla base della C.T. Reg. Lazio n. 1058/15/19, secondo cui, alla somma in esame, sarebbe applicabile l’art. 17 comma 1 lett. l), ma non l’art. 20-bis del TUIR. La C.T. Reg. ha motivato l’inapplicabilità dell’art. 20-bis del TUIR all’indennità in questione sostenendo che, ai fini fiscali, “lo studio associato è equiparato alle società semplici ed il reddito imputabile ai singoli partecipanti non può essere qualificato reddito d’impresa, non svolgendo tali società per natura attività commerciale”.

La motivazione della sentenza di merito, validata dalla Cassazione, non appare corretta, in quanto la norma non ha la funzione di qualificare i redditi come di impresa o meno, ma di fornire criteri per l’individuazione della quota imponibile delle somme percepite in sede di recesso. Tanto è vero che l’art. 20-bis del TUIR, secondo la prassi, è pacificamente applicabile alle società semplici (ex multis risposta a interpello Agenzia delle Entrate n. 754/2021) e, quindi, anche alle associazioni professionali.
La motivazione dei giudici appare poi contraddittoria in quanto, ai fini della ripresa a tassazione dell’indennità, è stato valorizzato il fatto che il professionista non aveva provato che la somma percepita rappresentava la restituzione del conferimento iniziale. Il che confermerebbe l’applicazione dei criteri forniti dall’art. 20-bis del TUIR alla fattispecie esaminata.

Sempre in tema di indennità di recesso, si segnala anche la Cassazione n. 25182/2024. Nella controversia oggetto della sentenza, un avvocato aveva stipulato con l’associazione professionale di cui era socio un accordo di recesso, che prevedeva, tra le varie cose, l’impegno del professionista a non entrare in concorrenza con lo studio, al quale aveva ceduto la clientela.

La Cassazione ha rigettato l’appello del contribuente avverso la sentenza dei giudici di secondo grado (C.T. Reg. Lombardia n. 958/12/18) secondo cui l’ultima rata dell’indennità spettante all’associato, percepita nel 2010, era classificabile tra i redditi diversi ex art. 67 comma 1 lett. l) del TUIR, in virtù del patto di non concorrenza.
La sentenza offre lo spunto per contestare questa ricostruzione. Si ricorda che, secondo la dottrina e la giurisprudenza civilistica (cfr. Cass. n. 2860/2010), la cessione della clientela nell’ambito degli studi professionali è un contratto misto, avente a oggetto obbligazioni di fare e non fare. L’obbligazione del cedente consiste, infatti, nel trasferire la clientela al soggetto subentrante, impegnandosi al contempo a non fargli concorrenza.

Pertanto, nella controversia oggetto della pronuncia n. 25182/2024, sarebbe stato più corretto applicare l’art. 54 comma 1-quater del TUIR, vigente ratione temporis, per riqualificare una parte dell’indennità del professionista come somma percepita per la cessione della clientela e per il conseguente obbligo di non concorrenza. La norma, oggi abrogata, qualificava infatti come redditi di lavoro autonomo i “corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale” (circ. Agenzia delle Entrate n. 8/2009).

Si precisa che, in una casistica simile, oggi appare corretta l’applicazione dell’art. 54 comma 1 del TUIR, in quanto le somme percepite per la cessione della clientela rientrano, dal 2024, tra i componenti positivi del reddito di lavoro autonomo in virtù del principio di onnicomprensività (cfr. Relazione illustrativa al DLgs. 192/2024).

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