Se si licenzia il whistleblower l’azienda deve dimostrare la non ritorsività del recesso
Il DLgs. 24/2023 dispone un’inversione dell’onere della prova: secondo un orientamento consolidato, tale onere incombe generalmente sul lavoratore
Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 1680/2025, ha fatto applicazione della normativa in materia di whistleblowing introdotta dal DLgs. 24/2023 in riferimento a un licenziamento ritenuto ritorsivo in quanto connesso alla segnalazione fatta dal lavoratore, di cui veniva quindi disposta la reintegra nel posto di lavoro.
A tal proposito, si ricorda che il DLgs. 24/2023, di attuazione della direttiva Ue 2019/1937, tra le forme di tutela previste in favore dei whistleblower annovera anche il divieto di ritorsione e specifiche disposizioni relative al licenziamento intimato per motivi ritorsivi a seguito della segnalazione fatta dal dipendente.
L’art. 17 di tale DLgs., al comma 4 lett. a), considera infatti il licenziamento come una misura ritorsiva quando avvenga in risposta alla segnalazione, alla denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica da parte del segnalante o del denunciante, prevedendo al precedente comma 2 la presunzione che lo stesso, quale atto ritorsivo, sia stato intimato a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia, con onere a carico di colui che lo ha adottato di provare il contrario.
Il successivo art. 19 dispone, invece, al comma 3 che gli atti assunti in violazione del divieto di ritorsione disposto all’art. 17 sono nulli e che i lavoratori cui sia stato intimato un licenziamento ritorsivo a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all’autorità hanno diritto alla reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della L. 300/70 o dell’art. 2 del DLgs. 23/2015, in base alla data della loro assunzione.
Si assiste, quindi, in materia di licenziamento ritorsivo, a un’inversione dell’onere della prova, dato che per giurisprudenza consolidata in generale è il lavoratore che lamenti la ritorsività del licenziamento subìto a dover provare, anche mediante presunzioni, la sussistenza dell’intento ritorsivo e che lo stesso sia stato l’unico motivo determinante la volontà di recedere da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. 6838/2023; si ricorda comunque l’eccezione prevista dall’art. 14 del DLgs. 104/2022 – c.d. “Decreto Trasparenza” – che dispone un’ulteriore inversione dell’onere probatorio per i licenziamenti intimati come rappresaglia rispetto all’esercizio da parte del lavoratore dei diritti previsti dal Decreto Trasparenza e dal DLgs. 152/97).
Nel caso in esame, il lavoratore aveva compilato un sondaggio in cui esprimeva “insoddisfazione riguardo al rapporto di collaborazione con la sua diretta responsabile, lamentando in particolare la mancanza di autonomia e l’assenza di fiducia da parte della superiore gerarchica”. Sebbene il sondaggio fosse anonimo, l’azienda – nel corso di una riunione – aveva comunicato al dipendente di essere venuta a conoscenza dell’esito dell’indagine e della sua valutazione negativa. Il lavoratore aveva quindi inoltrato, il 22 aprile 2024, una denuncia avvalendosi della procedura interna di Whistleblowing Channel. Ne seguiva una lettera di contestazione disciplinare datata 9 maggio 2024 e il licenziamento per giusta causa.
Il Tribunale di Milano, nel dichiarare il licenziamento nullo perché ritorsivo, ha fatto applicazione delle indicate disposizioni del DLgs. 24/2023. Nella decisione si legge che, avendo il lavoratore inoltrato una segnalazione, il datore di lavoro doveva dimostrare che il licenziamento intimato non era stato adottato in risposta alla segnalazione stessa. Il giudice nella pronuncia rileva la stretta contiguità temporale tra la segnalazione e il licenziamento, oltre all’irrilevanza disciplinare e all’insussistenza dei fatti contestati, alla pubblicazione poco prima di avviare la procedura disciplinare di un annuncio su Linkedin di selezione per lo stesso ruolo ancora ricoperto dal lavoratore e, infine, alla intimazione al lavoratore dell’immediata restituzione di tutti i beni aziendali e soppressione della sua e-mail aziendale già con la lettera di contestazione.
Sebbene non sia esplicitato, nella pronuncia, il contenuto della segnalazione, nel caso in cui la stessa abbia avuto lo stesso oggetto del sondaggio – quindi, un’insoddisfazione personale del lavoratore riguardante il rapporto con un superiore gerarchico – sovviene l’art. 1 del DLgs. 24/2023, in particolare il comma 2 lett. a), secondo cui le disposizioni di tale decreto non si applicano “alle contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale della persona segnalante o della persona che ha sporto una denuncia all’autorità giudiziaria o contabile che attengono esclusivamente ai propri rapporti individuali di lavoro o di impiego pubblico, ovvero inerenti ai propri rapporti di lavoro o di impiego pubblico con le figure gerarchicamente sovraordinate”.
Alla luce di ciò, probabilmente il DLgs. 24/2023 non avrebbe dovuto essere applicato e con esso l’inversione dell’onere della prova di cui sopra, con esito processuale forse differente alla luce dell’onere probatorio gravante sul lavoratore in relazione alla ritorsività del licenziamento subìto.
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