Fiscal Compact: per noi, mal comune mezzo gaudio
Con la sottoscrizione del “Fiscal Compact”, due settimane fa, l’Italia guidata da Mario Monti si è impegnata, così come gli altri ventiquattro Paesi dell’Unione europea firmatari, a rendere il perseguimento del pareggio di bilancio un vincolo di natura costituzionale, a non generare in ogni caso deficit strutturali superiori allo 0,5% del PIL e a ridurre gradualmente il proprio rapporto tra debito pubblico e PIL sino al 60%, riassorbendo ogni anno almeno un ventesimo della differenza esistente tra “rapporto esistente” e “rapporto obiettivo”.
Un accordo vincolante, con tanto di meccanismi sanzionatori “semiautomatici” (sul tema, si veda anche la recente lettera “Fiskal-Pakt: l’ennesimo fardello europeista sulla pelle degli italiani”).
Per un Paese come l’Italia, con un rapporto debito/PIL al 120% e mai un esercizio finanziario chiuso con un disavanzo inferiore allo 0,5% del PIL (miglior performance di sempre: l’anno 2000, con un disavanzo pari allo 0,91% del PIL), si tratta di una vera e propria svolta epocale.
Assai meno lo è per molti altri Paesi.
Basti pensare che, nel 2007, ultimo anno prima dell’inizio della crisi, ben undici degli altri ventiquattro firmatari avevano chiuso il bilancio con un avanzo (Bulgaria, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda, Spagna, Cipro, Lussemburgo, Olanda, Finlandia e Svezia) e altri tre con un deficit inferiore alla soglia dello 0,5% del PIL (Belgio, Lettonia e Slovenia).
Altri due Paesi (Austria e Lituania), inoltre, pur non rientrando in questo parametro nel 2007, vi sono rientrati in una o più occasioni nel corso della loro storia.
L’unico altro grande Paese europeo firmatario, per il quale il “Fiscal Compact” impone obiettivi mai prima raggiunti, è, oltre all’Italia, la Francia.
Gli altri sei sono Paesi che, per ragioni diverse, semplicemente non possono dire “no” alla Germania: Grecia, Ungheria, Polonia, Portogallo, Romania e Slovacchia.
Se si tiene conto che la Francia, rispetto all’Italia, ha un rapporto debito/PIL assai meno “tirato” (a fine 2010 era all’82% contro il 118% italiano) e un deficit più elevato da correggere per rispettare gli obiettivi di pareggio di bilancio, appare chiaro come sia proprio la Francia quella che esce maggiormente scornata dall’approvazione di un patto fiscale sovranazionale così rigido e invasivo della sovranità nazionale.
Per la Germania si è infatti trattato di imporre all’Europa nulla più che il suo modello.
Per l’Italia, di farle da sponda per ottenere, dal suo punto di vista, la trasformazione in regola europea di scelte che il suo immane debito pubblico aveva comunque già imposto di adottare “autonomamente” con la serie di manovre culminate nel “sedicente” Decreto “Salva Italia”.
Insomma, se per il Governo tedesco il “Fiscal Compact” è un vero e proprio trionfo che certifica il suo strapotere di indirizzo, per il Governo italiano è la declinazione diplomatica dell’adagio “mal comune, mezzo gaudio” e, più ancora, l’occasione per spostare da Roma a Bruxelles gli strali che verranno con sempre maggiore forza lanciati contro la politica del rigore, man mano che la stessa comincerà a far sentire in modo sempre più concreto i suoi effetti (prossimi appuntamenti: giugno, con la prima rata dell’IMU; ottobre, con l’aumento dell’IVA di due punti percentuali).
Al netto di questi comprensibili calcoli di real politik, è però difficile guardare con entusiasmo a questo accordo.
È difficile farlo anche se si è tra coloro che ritengono imprescindibile, per l’Italia, il raggiungimento del pareggio di bilancio (salve soltanto, ove le circostanze lo permettano, le spese per investimenti) per un congruo numero di anni.
Sarebbe difficile pure se si fosse tra coloro che ritengono necessario l’inserimento di questo vincolo nella Costituzione nazionale, invece che lasciarlo dove dovrebbe stare, ossia in cima agli impegni di chi si presenta agli elettori per governare.
Prima di affidare all’Europa il potere di vita e di morte sui deficit dei singoli Paesi, bisognerebbe infatti colmare il deficit di democrazia che caratterizza l’Europa.
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