Per l’impatriato residenza estera di tre anni se datore italiano ed estero sono diversi
Il periodo aumenta solo se c’è continuità tra la posizione estera e quella assunta al rientro in Italia
Con la risposta n. 317 di ieri, l’Agenzia delle Entrate torna sul requisito della residenza estera, necessario per accedere al regime degli impatriati di cui all’art. 5 del DLgs. 209/2023, soffermandosi, mediante richiamo ai precedenti interventi di prassi, sulle modalità con cui individuare le ipotesi di “continuità” tra le posizioni lavorative ante e post trasferimento, cui applicare il periodo di residenza estera “rafforzato”.
Il caso riguarda una persona, assunta dal 2001 come dipendente a tempo indeterminato di una banca, che, dal 2018 aveva fruito di un periodo di aspettativa non retribuita avendo assunto un incarico all’estero, dove aveva trasferito la propria residenza con regolare iscrizione all’AIRE.
Nel mese di marzo del 2024 il periodo di aspettativa all’estero si era concluso e la persona aveva ripreso servizio presso la banca di cui era dipendente dal 2001, ritrasferendo quindi la residenza in Italia da maggio dello stesso anno.
L’oggetto dell’interpello verte sulla possibilità di beneficiare del regime degli impatriati di cui all’art. 5 del DLgs. 209/2023, valido per i trasferimenti di residenza fiscale avvenuti dal 2024, nell’ipotesi in cui al rientro in Italia il lavoratore collocato in aspettativa riprenda a lavorare alle dipendenze del medesimo datore di lavoro ante espatrio.
Al riguardo, l’Agenzia evidenzia come il dettato normativo dell’art. 5 del DLgs. 209/2023, a differenza di quello del previgente art. 16 del DLgs. 147/2015, contempli le ipotesi in cui il lavoratore si trasferisce in Italia per prestare l’attività lavorativa in favore del medesimo soggetto (residente o non residente in Italia), presso il quale è stato impiegato all’estero prima del rientro (oppure in favore di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo). In tali casi, la norma prevede l’allungamento del periodo minimo di pregressa residenza estera che, da tre, aumenta a sei o sette anni, a seconda che si tratti o meno del medesimo soggetto (datore/gruppo) presso cui l’attività lavorativa era svolta in Italia prima dell’espatrio.
In altre parole, precisa ancora l’Agenzia, il “nuovo regime” si applica anche nell’ipotesi in cui sia ravvisabile la “continuità” con una precedente posizione lavorativa assunta in Italia prima dell’espatrio, rilevando tale circostanza solo in termini di maggior permanenza all’estero rispetto a quanto ordinariamente previsto.
A chiarimento vengono richiamate le risposte ad interpello nn. 142/2025 e 41/2025, in base alle quali la valutazione da effettuare per individuare il periodo minimo di residenza pregressa richiesto riguarda, in primo luogo (primo test), ciò che accade al momento dell’impatrio.
Prendendo la situazione di un ipotetico soggetto che lavorava per un datore di lavoro ITA 1, che espatria per lavorare per conto di un datore di lavoro ESTERO e che ritorna in Italia per essere assunto da un datore ITA 2, occorre quindi in primo luogo valutare se ITA 2 e ESTERO sono lo stesso soggetto o fanno parte dello stesso gruppo. In caso di risposta negativa, il periodo minimo di residenza estera resta pari a tre anni mentre in caso di risposta positiva, si deve procedere con il secondo test.
Quest’ultimo richiede di valutare ciò che è accaduto al momento dell’espatrio, e quindi se ITA 1 e ITA 2 sono lo stesso soggetto o fanno parte dello stesso gruppo. Se la risposta è negativa, il periodo minimo di residenza estera è pari a sei anni; se la risposta è positiva, il periodo minimo di residenza estera sale a sette.
In applicazione dei principi illustrati, nella risposta n. 317/2025, l’Agenzia delle Entrate ritiene che il periodo minimo di residenza all’estero sia pari a tre periodi d’imposta. Ciò in quanto, stando alle informazioni fornite, non c’è coincidenza tra il datore di lavoro per il quale il dipendente è stato impiegato all’estero nel periodo d’imposta precedente il rientro in Italia e quello presso il quale continuerà a lavorare dopo il trasferimento in Italia.
Pertanto, tornando all’esempio, non verrebbe superato il primo test relativo alla coincidenza tra ESTERO e ITA2 con la conseguenza per cui il periodo di residenza estera pregressa richiesto rimane quello ordinario (non si procede quindi ad effettuare il secondo test che, nel caso prospettato all’Agenzia, vedrebbe verificata la coincidenza tra ITA1 e ITA2).
L’Agenzia precisa poi ancora come, nell’ambito del regime agevolativo di cui all’art. 5 del DLgs. 209/2023, non rileva la circostanza per cui il lavoratore sia stato posto in aspettativa non retribuita prima di trasferirsi all’estero (nel contesto del previgente regime invece la circ. n. 33/2020 aveva ritenuto che per i contribuenti che rientrano a seguito di aspettativa non retribuita fosse precluso l’accesso al beneficio).
Nel rispetto degli altri requisiti di legge, la risposta n. 317/2025 ammette quindi la fruizione dell’agevolazione relativa ai lavoratori impatriati.
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