Peculato per l’amministratore di beni confiscati con autoliquidazione del compenso
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la fatturazione effettuata dal commercialista che affianca l’amministratore ha un ruolo decisivo nel reato
L’amministratore di beni confiscati, al pari del commissario liquidatore, può commettere il delitto di peculato (art. 314 c.p.) nell’autoliquidazione e auto-assegnazione di denaro pertinente a beni di cui abbia la disponibilità per motivi di ufficio, non spettandogli un tale potere. L’assegnazione va, infatti, disposta sulla base di un provvedimento dell’autorità e non è prevista alcuna forma di autotutela (Cass. n. 33472/2011). Non è, dunque, contemplato in capo all’amministratore alcun potere di autoliquidazione del compenso spettantegli per l’attività svolta e, a maggior ragione, dell’acconto su tale compenso.
Sussiste, ovviamente, il diritto soggettivo dell’amministratore a ricevere un compenso per l’attività svolta, ma la determinazione del suo ammontare è di competenza dell’autorità, che la esercita secondo le modalità previste dalla legge.
In forza di tali principi, a un amministratore giudiziario e/o custode giudiziario in diverse società, nonché coadiutore dell’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), erano stati contestati vari delitti di peculato (art. 314 c.p.), alcuni commessi da solo e altri in concorso con un dottore commercialista legato al primo da un rapporto di collaborazione.
Nel ricorso portato all’attenzione della della Cassazione, che si è pronunciata con sentenza n. 18735 depositata ieri, la difesa aveva sostenuto che la condotta tenuta dall’imputato non poteva configurare il reato, in quanto le somme prelevate dagli enti sotto la sua custodia non erano destinate a finalità diverse e incompatibili con quelle istituzionali. La fattispecie prevede, infatti, la punibilità per il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Nel caso in esame, l’amministratore più che “appropriarsene”, sosteneva di aver destinato le somme al pagamento dei propri compensi e a spese necessarie per il funzionamento del proprio studio, dedicato interamente alla gestione degli enti amministrati.
Peraltro veniva sostenuto che l’autoliquidazione dei compensi e delle spese non costituisce di per sé condotta distrattiva illecita in quanto volta a soddisfare finalità non estranee da quelle istituzionali (erano somme comunque dovute al ricorrente se pur con modalità diverse).
La citata sentenza ripercorre così i presupposti della fattispecie in questione, come già in parte sopra riportati.
Il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione del bene o del danaro. Tale appropriazione viene ritenuta lesiva dell’interesse tutelato dall’art. 314 c.p. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, un effettivo danno patrimoniale alla Pubblica Amministrazione.
Per esempio le Sezioni Unite n. 38691/2009 avevano ritenuto responsabile per tale reato il concessionario di un pubblico servizio che aveva trattenuto le somme incassate per conto dell’ente, per soddisfare un proprio diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo, ricorrendo a una sorta di autoliquidazione.
Viene così ribadito il principio consolidato per cui non esclude il reato di peculato la circostanza che il pubblico ufficiale si appropri di somme di danaro pubblico in compensazione di crediti vantati nei confronti dell’amministrazione di appartenenza in quanto, salvi i casi espressamente contemplati dalla legge, non è previsto il riconoscimento dell’autotutela per la realizzazione dei propri diritti.
Ogni utilizzo “come proprio” del bene o del denaro è dunque passibile di sanzione.
Per quanto riguarda la posizione del commercialista che affiancava l’amministratore giudiziario, viene negata la circostanza attenuante della minima partecipazione prevista all’art. 114 c.p.
Ciò in quanto viene evidenziato come la fatturazione effettuata dal professionista rivestiva qui un ruolo decisivo nella perpetrazione del reato, diminuendo le possibilità di esporsi al rischio di far apparire come arbitrarie le costanti e continue apprensioni illecite di denaro.
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