La disapplicazione delle società di comodo passa per motivazioni oggettive
La mancanza di autorizzazioni e l’eccessiva onerosità dell’investimento non salvano dalle penalizzazioni
Nell’ordinanza della Cassazione n. 25992/2025, pubblicata ieri, si affronta il caso di una società cui era stato contestato, per gli esercizi 2013 e 2014, un maggiore reddito per applicazione della disciplina delle società non operative ex art. 30 della L. 724/94.
Risaltano due spunti interessanti, purtroppo non sviluppati compiutamente nell’ordinanza, che sono stati anche in altre occasioni sottoposti al vaglio della Suprema Corte.
L’accertamento per mancato superamento del test di operatività riguardava una società in liquidazione che non era riuscita ad avviare l’esercizio di due strutture socio-assistenziali per l’assenza delle necessarie autorizzazioni e – pare di capire – per la sproporzione dei mezzi richiesti rispetto ai ricavi e al reddito attesi.
Poiché, come già rilevato, i due temi non sono sviluppati in modo esteso nell’ordinanza, non risulta chiara la relazione tra i due, che all’apparenza non sembra possano coesistere (se non ci sono le autorizzazioni, non sembra ragionevole invocare l’eccessiva onerosità dell’investimento, e viceversa).
In attesa di una nuova analisi da parte della Corte di Giustizia di secondo grado, cui la Cassazione rinvia per un riesame che si attenga alla valutazione delle motivazioni oggettive che avrebbero impedito di conseguire i ricavi pur in presenza di quella che astrattamente si presenta come “una attività di impresa e di commercio immobiliare idonea a produrre ricavi e redditi”, si possono sviluppare alcune considerazioni di carattere generale con particolare riferimento alla valenza delle due argomentazioni segnalate ai fini della disapplicazione della disciplina delle società di comodo.
Il primo tema è quello della mancata concessione di autorizzazioni amministrative, che sembrerebbe costituire un impedimento oggettivo e incontrovertibile ai fini della disapplicazione delle penalizzazioni da riservare alle società di comodo, tale non apparendo quella che si appresta a intraprendere un’attività restando bloccata per motivi burocratici.
Non si può prescindere, però, da una valutazione caso per caso. Ad esempio, nell’ordinanza 7 settembre 2025 n. 24731, il mancato rilascio delle autorizzazioni risaliva a ben 14 anni prima dell’anno oggetto di accertamento, cosicché sembrava da comprendere meglio (anche in quel caso, infatti, la conclusione era un rinvio alla Corte di Giustizia di secondo grado) “se la società fosse in grado di riprogrammarsi in funzione dell’esercizio di un’attività economica adattata a tali vincoli esterni” oppure il problema burocratico “avesse definitivamente compromesso l’attività imprenditoriale, integrando un’impossibilità assoluta e definitiva”.
Di analogo tenore è il precedente di cui alla Cassazione 8 luglio 2024 n. 18657, nel quale pure l’elemento che fa propendere per una migliore valutazione dei fatti (anche qui si cassa con rinvio) è il fatto che l’imprenditore, dopo aver acquistato un immobile in disuso allo scopo di ripristinarne la funzione, non essendo riuscito nel suo scopo per il mancato conseguimento delle necessarie autorizzazioni, abbia lasciato che lo stato di inattività si prolungasse per anni senza riuscire a trovare alcun tipo di soluzione per la vendita o l’impiego produttivo dell’immobile.
La conclusione che se ne può trarre è che una lunga inattività, pur conseguente a una circostanza oggettiva come il mancato rilascio delle necessarie autorizzazioni, potrebbe essere considerata in definitiva una scelta dell’imprenditore (Cass. 16 maggio 2023 n. 13336) e pertanto rivelare l’esistenza di una società non operativa.
Meno ricorrente, ma non meno interessante, è il tema dell’eccessiva onerosità dell’investimento, che impedirebbe di avviare l’attività imprenditoriale o di svilupparla in modo soddisfacente. Se ne trova una traccia nella pronuncia n. 24731/2025, nella quale il contribuente invoca a sua giustificazione gli ingenti capitali necessari per l’esercizio dell’attività, che non sarebbe stato in grado di reperire. Non vi è una chiara pronuncia su questo punto, ma la questione si può inquadrare in un discorso generale, a proposito del dovere dell’imprenditore di “pianificare la sua attività, predisponendo i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro oggettivo” (Cass. 14 giugno 2021 n. 16697).
Nella sentenza da ultimo citata si affrontava il caso di una società che non aveva avviato la propria attività per la mancata concessione di un contributo pubblico sul quale confidava; la Suprema Corte ha ritenuto che questa non fosse una giustificazione idonea, proprio perché l’imprenditore non dovrebbe fare affidamento solo su risorse esterne di cui non è certa la concessione.
Anche con riferimento all’argomentazione della mancanza di mezzi o dell’eccessiva onerosità dell’investimento, quindi, ferma restando la necessità di una valutazione caso per caso, sembra di poter cogliere lo sfavore della Suprema Corte verso un impedimento considerato di natura soggettiva e non oggettiva come richiesto dall’art. 30 comma 4-bis della L. 724/94.
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