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EDITORIALE

La «corporazione sciocca» dei commercialisti

/ Enrico ZANETTI

Giovedì, 10 febbraio 2011

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Statene pur certi: la campagna (si veda “Dal Consiglio dei Ministri, via libera alla riforma della libertà d’impresa” di oggi), che vuole convincerci della necessità indifferibile di modificare l’art. 41 della Costituzione sulla libertà di intrapresa economica (impossibile altrimenti dare corso a liberalizzazioni, come no), si trasformerà molto presto nei soliti discorsi triti e ritriti sulle mille corporazioni italiane che, nell’immaginario collettivo, vedono in cima alla lista nientemeno che gli ordini professionali.

Gli indizi ci sono già tutti e già “pregusto” i travasi di bile che dovremo farci nel sentire le solite litanie indifferenziate: i farmacisti, i notai, gli avvocati, i commercialisti, eccetera.
C’è solo una cosa peggiore di quella di sentirsi additati come corporazione: essere considerati tali senza averne i vantaggi un po’ pelosi, che però sempre vantaggi sono.
Nel primo caso, infatti, ti senti un po’ a disagio; nel secondo, invece, ti senti proprio un deficiente.

Che i farmacisti possano essere percepiti come una corporazione, ci può stare: fa parte dei rischi (e dei vantaggi) del loro mestiere.
Oggettivamente, sfido chiunque a spiegare in modo convincente perché un cittadino in possesso del titolo professionale di farmacista non possa aprire una propria farmacia se non è anche titolare (per successione ereditaria o per acquisizione a titolo onerosissimo) di una licenza commerciale che lo abilita alla rivendita di farmaci: cos’è che tutela la salute del cittadino, la competenza professionale o la licenza commerciale?

Che il rischio di essere percepiti come corporazione possano correrlo anche i notai, ci sta del pari: magari è ingiusto, ma è un fatto che, quando le sedi notarili sono tutte assegnate, uno può anche avere la genialità di Einstein e la moralità di San Francesco, ma la professione non gliela lasciano esercitare; chi c’è, c’è.

Gli avvocati, invece, sono una professione aperta come poche, lo testimoniano numeri esorbitanti di iscritti che dimostrano come chiunque, attendendo al percorso formativo posto a tutela del cittadino, può esercitare la professione; è vero, però, che sono guidati da una classe dirigente con una concezione medievale della professione, che negli ultimi anni si è battuta esclusivamente per ottenere riserve di attività improponibili, per introdurre numeri chiusi e per ottenere il ripristino delle tariffe minime (e ora che il vento cambia, le tornerà indietro tutto come un boomerang).

I commercialisti, invece, hanno molte competenze riconosciute per legge, ma nessuna attività che possa essere esercitata esclusivamente da loro (al massimo anche da loro, ma mai solo da loro); non conoscono né auspicano numeri chiusi, e anzi il loro numero è cresciuto negli ultimi vent’anni assai più di quanto non sia cresciuto il numero delle imprese che operano sul cosiddetto libero mercato; hanno una tariffa che non conosce minimi inderogabili da ben prima che arrivassero, nel 2006, le misure del Decreto Visco-Bersani e che anzi, come argutamente sottolineato ieri da un lettore (si veda “Invii telematici, non applicare la nuova tariffa esporrà al rischio «accertamento»”), talvolta è più probabile che possa essere usata dal Fisco contro di loro per costruire presunzioni di reddito su compensi mai percepiti, di quanto non possa essere utilizzata da loro nei confronti dei clienti per percepire davvero quei compensi; hanno, infine, una classe dirigente che, con spirito oggettivamente innovatore, organizza congressi e fa pubblicità sui giornali per spiegare quello che la professione può fare di utile per il Paese, anziché per chiedere riconoscimenti a prescindere dalla loro effettiva utilità nell’ottica dell’interesse generale.

Ciò nondimeno, sono pronto a scommetterci, la litania degli ordini professionali uguali a corporazioni potentissime che bloccano il Paese (mentre Confindustria e la triplice sindacale sono deboli voci inascoltate che, lo fossero, farebbero gli interessi generali del Paese e non i propri) arriverà puntuale e, salvo sporadiche eccezioni di chi parla e scrive con un minimo di cognizione di causa, arriverà da politici, imprenditori, sociologi e commentatori in modo indifferenziato, senza fare prigionieri e senza dare onore al merito.
E sarà quello il momento, tra un travaso di bile e l’altro, in cui dovremo chiederci se avremo voglia di continuare a fare la parte della “corporazione sciocca”, oppure, già che per corporazione ci considerano, provare ad agire davvero come tale, utilizzando in modo assai diverso le risorse di cui disponiamo.

Se fossimo in un Paese diverso non avrei dubbi: abbiamo sufficiente autostima e consapevolezza di noi da non temere di passare per sciocchi quando sappiamo che stiamo facendo qualcosa di giusto, e che sciocco è in realtà colui che ancora non ha capito dove il mondo stia andando.
Tuttavia, poiché siamo in Italia, il dubbio che il gioco non valga la candela è inevitabilmente grande.
È vero però, non dimentichiamolo mai, che il Paese in cui si vive non è altro da se stessi, ma il risultato del nostro lavoro e del nostro impegno di ogni giorno.
Alla fine, è sempre ai grandi classici che si torna: essere o non essere?

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