Non basterebbe la bacchetta magica di Harry Potter per uscire da questa crisi
Caro Direttore,
lo spettro dei “dissennatori” di Harry Potter si aggira per i cieli del Sud dell’Europa, in particolare su quelli del nostro Paese. Questi esseri, incapaci di distinguere tra colpevoli e innocenti, quando si avvicinano ad una persona ne strappano l’energia ed ogni pensiero felice, fino a ridurla alla disperazione. In questa situazione, chi può fugge: anche da noi, capitali, imprese e persone stanno attrezzandosi per fare “armi e bagagli” e approdare verso lidi meno oscuri.
Per la prima volta, nel mio quasi mezzo secolo di vita, percepisco un generale e trasversale sconforto fra le persone. A differenza delle crisi precedenti, qui non si vede la luce in fondo al tunnel. Anche perché, alla fin fine, nulla è cambiato. Alla crisi economica che attanaglia il Paese ormai da anni, e che verosimilmente peggiorerà quest’anno con un seri rischi di depressione, si aggiunge una (op)pressione fiscale senza precedenti, che ogni giorno aumenta con l’introduzione di nuovi balzelli.
Crisi, sempre più tasse e un debito pubblico che non accenna a scendere di un euro. Tagli alla spesa seri non se ne fanno (e non si parla di spesa sociale, che interessa solo il 30% del bilancio, ma del restante 70%), dismissioni nemmeno. E i recenti aumenti delle tasse immobiliari, ad esempio, ridurranno il già depresso valore degli immobili, per il cui acquisto generazioni di italiani hanno fatto sacrifici enormi.
Al clima economico negativo si aggiunge poi un sistema della politica che utilizza i vecchi strumenti con cui gli stati totalitari cercavano il consenso: un programma “negativo”, basato sull’odio nei confronti del nemico interno (l’evasore, causa di tutti i nostri mali, ma non il politico disonesto, ovviamente), di quello esterno (lo speculatore internazionale, che vende i nostri titoli del debito pubblico) e sull’invidia per quanti se la passano meglio (per cui se hai l’auto di lusso sei un disonesto).
Un clima nel quale le stesse libertà costituzionalmente garantite (tra cui, ad esempio, il diritto di andare liberamente a Cortina o in giro nella movida milanese del sabato sera, senza essere coinvolti in blitz paramilitari propri di una dittatura della fiscalità) sono di fatto limitate da azioni basate sul principio, contrario a qualsiasi Stato di diritto, secondo cui il fine giustifica i mezzi.
Oltretutto vi è la pretesa di ridistribuire la ricchezza secondo la regola del “chi ha di più deve dare di più”. Ma chi ce lo fa fare di lavorare di più e di “contribuire alla crescita”, quando il provento della nostra fatica – ammesso che lo si riesca a portare a casa – ci viene sottratto?
Il vecchio modello di economia pubblica – spendi, indebitati, tassa, rispendi, rindebitati e ritassa – porta solo alla rovina. Esso è stato accompagnato, in Occidente, da un simile modello di economia privata, basato sul consumo oltre le proprie possibilità, finanziato a debito.
Dove invece l’economia funziona eccome (in particolare nel sud-est asiatico), il modello pubblico è basato su “poca spesa, poco debito, poche tasse” e quello privato sul trinomio “produci, risparmia, investi”. Da noi, insomma, si fa di tutto per costruire la via verso la povertà, in Asia quella verso la ricchezza.
Mi ero illuso che potesse arrivare finalmente una stagione delle riforme che riportasse il paese sulla via del benessere e della serenità che i cittadini meritano. Mi sto convincendo invece che la cleptocrazia keynesiana non potrà essere riformata e che si andrà avanti così fino al collasso del sistema. Solo allora si potrà provare a costruire un mondo migliore, se si avrà il coraggio ricominciare, eliminando gli ostacoli che l’umana follia ha, in tempi più o meno recenti, disseminato sul nostro cammino.
La ricetta per la crescita è una sola: eliminare quella cappa di oppressione che ci toglie lo stimolo ad agire e che ci rende infelici e sfiduciati, senza prospettive di un domani migliore, per liberare finalmente l’energia creativa degli individui, oggi ridotta in catene.
Basta andare in Asia per vedere nella gente quell’allegria che viene dalla voglia di fare, di investire, di produrre e che nasce dalla consapevolezza che i risultati del proprio lavoro (pagato un ragionevole contributo per le spese pubbliche) servirà ad arricchire sé stessi, a creare nuovi posti di lavoro, a contribuire al benessere della nazione, senza suscitare invidia o biasimo nella società, ma anzi stima, ammirazione e senso di emulazione. Basta andare là per sentire i politici che, ad ogni introduzione di convegno, fanno pubblicità al loro paese, raccontando le agevolazioni che hanno messo in piedi per attirare capitali e talenti da ogni parte del mondo e per favorire quelli che lavorano e producono.
Occorre, insomma, far sparire i “dissennatori” di cui parlavamo all’inizio; peccato che, nel mondo reale, non basti, come Harry Potter, dire: “Expecto patronum”.
Stefano Marchese
Consigliere CNDCEC delegato alla Deontologia
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