Riciclaggio, non basta il sospetto per il rilievo penale dell’omessa segnalazione
L’omessa segnalazione è punibile solo quando l’illegittimità della provenienza del bene è connotata da qualcosa in più del mero sospetto
Pubblichiamo l’intervento del Cap. Davide Giangiorgi, Nucleo Polizia tributaria Torino, Gruppo Tutela Mercato Capitali – Sezione Riciclaggio.
Come specificato nel manuale operativo a tutela del mercato dei capitali della Guardia di Finanza (circ. n. 83607 del Comando Generale della Guardia di Finanza del 19 marzo 2012, vol. I, pag. 92), il riciclaggio può essere realizzato anche nella forma omissiva, ad esempio, quando il titolare di un’attività finanziaria, ben consapevole della condotta criminis e dell’origine illecita delle somme da trasferire, scientemente, non impedisce un’operazione in itinere attraverso la procedura della sospensione imposta dal DLgs. 231/2007.
Tale ultima interpretazione si basa sull’assunto che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” (art. 40, comma 2 c.p.).
Partendo da questi presupposti, ci si interroga se omettere di effettuare la segnalazione di operazioni sospette, ex art. 41 DLgs. 231/2007, accettando il rischio che venga commessa un’operazione finanziaria illecita, possa comportare un’accusa per riciclaggio a carico del soggetto preposto alla vigilanza.
I più recenti orientamenti sembrano conformi nel sostenere la configurabilità del reato anche a titolo di dolo eventuale (Cass. 1° luglio 2011 n. 25960).
Nell’ambito di un’indagine di polizia giudiziaria, in presenza di operazioni finanziarie non segnalate, il magistrato deve verificare il grado di consapevolezza di colui che ha permesso le operazioni: il discrimine tra sanzione amministrativa e violazione penale è dato proprio dalla valutazione dell’elemento soggettivo che ha determinato la mancata segnalazione dell’operazione.
Un complesso caso giudiziario è quello che ha visto protagonista il responsabile antiriciclaggio di un piccolo istituto di credito che, omettendo di effettuare la segnalazione di operazioni sospette, aveva consentito ad una curatrice fallimentare di appropriarsi di 35 milioni di euro prelevati dai conti correnti delle procedure affidatele.
In primo grado, in capo al direttore della banca era stata affermata la responsabilità penale ai sensi del combinato disposto degli artt. 648-bis e 40 cpv c.p., per aver avuto un ruolo positivo nel consentire la ripulitura del denaro.
Questo sulla base delle seguenti considerazioni:
- egli ricopriva il ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa antiriciclaggio;
- le operazioni in questione non potevano sfuggirgli a causa delle piccole dimensioni dell’istituto dotato di un’unica filiale;
- in almeno un’occasione avava esaminato personalmente i movimenti dei conti;
- un direttore di sala aveva dichiarato di aver segnalato oralmente alla direzione le anomale movimentazioni.
La condanna è stata ribaltata in sede d’appello con l’assoluzione del ricorrente, in quanto la Corte di merito aveva escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo (Corte d’Appello di Milano 25 ottobre 2007). Contro quest’ultima decisione ha ricorso in Cassazione il Procuratore Generale.
La Suprema Corte, interpellata sulla questione, ha accolto il gravame annullando con rinvio la sentenza d’appello, poiché riteneva che non fossero state compiutamente valutate le suesposte circostanze (Cass. 26 gennaio 2010 n. 3327).
La Corte d’Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi nuovamente sul caso, ha questa volta confermato la condanna. Nella sentenza si legge: “Omettendo di agire, pure a fronte di evidenti anomalie, l’imputato ha dimostrato di accettare il rischio che il cliente utilizzasse la banca per ripulire i proventi illeciti, consentendogli di operare senza ostacoli” (Corte d’Appello di Milano 9 maggio 2011).
Avverso questa decisione è stato presentato un nuovo ricorso in Cassazione che, il 26 settembre 2012, si è definitivamente pronunciata sulla questione annullando la condanna (Cass. 26 settembre 2012 n. 37098).
Nella sentenza viene affermata la presenza di sole prove indiziarie dalle quali non è possibile desumere che il preposto fosse consapevole di consentire il riciclaggio. Tra le diverse motivazioni, in una complessa ed articolata ricostruzione, la Corte afferma che non è dimostrata la conoscenza da parte del direttore delle operazioni anomale, escudendo che questi possa essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 40 c.p., per la sola titolarità di una posizione di garanzia.
Purtroppo, la Suprema Corte non definisce chiaramente l’ipotesi avversa, ovverosia il caso in cui il direttore decida di omettere la segnalazione, a fronte della dimostrata conoscenza dell’avvenuta esecuzione di operazioni finanziarie anomale.
Tuttavia, alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali, si ritiene di poter concludere che l’omessa segnalazione di operazioni sospette, connessa a delitti, può assumere rilievo ai fini penali solo quando l’illegittimità della provenienza del bene sia connotata da qualcosa in più del mero sospetto. “Il dolo eventuale […] richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto [...]” (Cass. 30 marzo 2010 n. 12433).
Perché il soggetto obbligato sia penalmente responsabile, occorre dimostrare l’esistenza di una situazione fattuale dal significato inequivoco che gli imponga una scelta consapevole: agire segnalando o, al contrario, omettere di intervenire, consentendo così il perpetrarsi della condotta criminosa.
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