Legittimi gli atti sottoscritti dai funzionari incaricati
La questione relativa alla validità degli incarichi dirigenziali non si riflette sull’idoneità degli atti emessi
Pubblichiamo l’intervento di Vincenzo Busa, Direttore centrale Affari legali e Contenzioso dell’Agenzia delle Entrate.
Nel valutare gli effetti della sentenza della Corte costituzionale del 17 marzo 2015, n. 37 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 25 marzo 2015) sulla validità degli atti sottoscritti da personale incaricato di funzioni dirigenziali, è doveroso e prioritario prendere atto della seguente affermazione resa nella medesima sentenza: “considerando le regole organizzative interne dell’Agenzia delle entrate e la possibilità di ricorrere all’istituto della delega, anche a funzionari, per l’adozione di atti a competenza dirigenziale – come affermato dalla giurisprudenza tributaria di legittimità sulla provenienza dell’atto dall’ufficio e sulla sua idoneità ad esprimerne all’esterno la volontà (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione tributaria civile, sentenze 9 gennaio 2014, n. 220; 10 luglio 2013, n. 17044; 10 agosto 2010, n. 18515; sezione sesta civile − T, 11 ottobre 2012, n. 17400) – la funzionalità delle Agenzie non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata...”.
La Consulta richiama e fa proprio l’orientamento della Cassazione in tema di riferibilità degli atti emessi all’Amministrazione, così come desumibile dalle quattro sentenze espressamente menzionate, affermando in termini inequivoci come la questione relativa alla validità degli incarichi dirigenziali non si riflette sulla funzionalità dell’Agenzia delle Entrate, né sull’idoneità degli atti emessi ad esprimere all’esterno la volontà dell’Amministrazione finanziaria. Ne consegue che la legittimità degli atti sottoscritti dal personale incaricato di funzioni dirigenziali è fuori discussione.
Non si tratta di opzione di comodo o di opportunità da parte dell’Amministrazione, ma di soluzione tecnico-giuridica che esprime l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, alle cui motivazioni, fatte proprie dalla Consulta, occorre pertanto fare riferimento. Nelle sentenze puntualmente richiamate e condivise dalla Consulta, la Suprema Corte ha fatto applicazione dei principi di conservazione dell’atto amministrativo e di certezza del diritto, laddove chiarisce che, ai fini della legittimità di un atto amministrativo, è sufficiente che lo stesso provenga e sia riferibile all’ufficio che lo ha emanato.
Con la richiamata sentenza n. 220/2014, in particolare, la Cassazione – pronunciandosi in ordine ad un asserito vizio di “illegittimità del diniego (di condono, ndr), in quanto sottoscritto... da direttore di Agenzia locale, peraltro asseritamente carente di qualifica dirigenziale” – ha disatteso la censura del contribuente chiarendo che “la provenienza dell’atto dall’ufficio e la sua idoneità ad esprimerne la volontà si presume, finché non venga provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio o, comunque, l’usurpazione dei relativi poteri (cfr. Cass. 874/09)”.
L’ulteriore sentenza richiamata dalla Consulta, la n. 18515/2010, si riferisce proprio all’ipotesi di un avviso di accertamento sottoscritto da personale incaricato di funzioni dirigenziali; in tale pronuncia la Cassazione, rigettando l’eccezione del contribuente secondo il quale “ai fini della valida sottoscrizione dell’atto impositivo non sarebbe sufficiente la qualifica di direttore dell’ufficio occorrendo altresì la qualifica dirigenziale”, chiarisce che “il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, si limita a prevedere che... gli accertamenti... sono sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere assolutamente che il capo dell’ufficio debba rivestire la qualifica dirigenziale”.
Tale disposizione normativa, prosegue la Cassazione, individua “nel capo dell’ufficio, per il solo fatto di essere stato nominato tale, l’agente capace di manifestare la volontà della Amministrazione Finanziaria, negli atti a rilevanza esterna e di produrre gli effetti giuridici imputabili alla determinazione della sua volontà nella sfera giuridica dei contribuenti. Con la conseguenza che compete al titolare dell’ufficio, quale organo deputato a svolgerne le funzioni fondamentali, ovvero ad un impiegato della carriera direttiva da lui delegato nell’esercizio dei poteri organizzativi dell’Ufficio, la funzione di sottoscrivere gli avvisi, con i quali sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti, indipendentemente dal ruolo dirigenziale eventualmente ricoperto, la cui appartenenza esaurisce i propri effetti nell’ambito del rapporto di servizio con l’Amministrazione”.
Tale pronuncia è stata poi confermata dalla sentenza n. 17044/2013, ove la Cassazione precisa che “l’atto impositivo può essere sottoscritto anche da «impiegato della carriera direttiva... delegato» dal «capo dell’ufficio» (il quale, per Cass., trib., 10 agosto 2010 n. 18515, non deve affatto «rivestire la qualifica dirigenziale»)”.
Ai fini della validità dell’atto ciò che conta è la pura e semplice riferibilità dello stesso all’ufficio, ossia all’organo titolare del potere nel cui esercizio è stato adottato, e non al sottoscrittore: è irrilevante che la persona fisica che lo abbia sottoscritto sia o meno un dirigente, in quanto la questione relativa all’accesso legittimo alla dirigenza si pone su un piano diverso rispetto a quella concernente la legittimazione alla sottoscrizione degli atti.
Ancora più netta sul punto è la giurisprudenza amministrativa, secondo cui ai fini della sua validità è sufficiente “la intestazione dell’atto e la circostanza che l’amministrazione non lo ha mai disconosciuto come proprio”, ciò che “impedisce in radice di ritenere sussistente alcuno stato di «incertezza» circa l’attribuibilità dello stesso all’Amministrazione. Si rammenta in proposito che anche la più avveduta giurisprudenza di legittimità civilistica si è spinta ad affermare «l’atto amministrativo non è invalido solo perché privo di sottoscrizione, in quanto la riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato può essere desunta anche dal contesto dell’atto stesso»” (Consiglio di Stato 4 dicembre 2012 n. 6190).
Analogo orientamento si è affermato con riguardo agli atti processuali. Un atto di appello proposto dall’ufficio recante in calce la firma di un funzionario è stato ritenuto ammissibile dalla Cassazione, in quanto è da presumere che esso provenga dall’ufficio e che ne costituisca espressione della volontà, posto che “… il potere di impugnare le decisioni delle Commissioni tributarie va riconosciuto in capo, non al titolare dell’Ufficio, ma all’Ufficio medesimo” (Cass. 28 maggio 2008 n. 13908; da ultimo, Cass. 24 luglio 2014 n. 16831 e Cass. 16 maggio 2014 n. 10744).
Appare dunque pacifico che l’inesistenza di un atto amministrativo può discendere non dalla carenza o illegittimità della sottoscrizione, ma solo dall’assoluta non riferibilità dello stesso alla Pubblica Amministrazione emittente.
È stato del resto ritenuto che non può tollerarsi, nell’Amministrazione pubblica, un vuoto di potere, in quanto occorre individuare, in ogni momento, un’autorità con la funzione di decidere e provvedere (cfr., ex multis, Consiglio di Stato 14 maggio 1968 n. 303).
Le indicazioni della giurisprudenza rilevano per la generalità degli atti amministrativi, ivi compresi gli avvisi di accertamento. Infatti, gli artt. 5, comma 6 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate e 42 del DPR n. 600/1973, nel disciplinare la sottoscrizione degli avvisi di accertamento, si limitano a prevedere che tali atti siano sottoscritti dai direttori provinciali o da impiegati dagli stessi delegati, senza richiedere la qualifica dirigenziale né del delegante, né del delegato.
Nelle citate sentenze nn. 18515/2010 e 17044/2013, peraltro, la Cassazione chiarisce proprio che il direttore provinciale, capace in quanto tale di manifestare all’esterno la volontà dell’ufficio, non deve necessariamente rivestire la qualifica dirigenziale.
Quanto finora evidenziato in merito alla validità degli atti emessi assume carattere assorbente rispetto ad altre questioni, da taluni pure correttamente affrontate benché prive di utilità, come ad esempio l’impossibilità di sottoporre all’esame giudiziale, dopo la proposizione del ricorso introduttivo, il tema in esame.
Da ultimo, va sottolineato che eventuali richieste di accesso agli atti per verificare se il sottoscrittore abbia o meno la qualifica dirigenziale appaiono superflue, perché la conoscenza di tale dato, di per sé irrilevante ai fini della validità degli atti, non esprimerebbe alcun interesse per il ricorrente da far valere in giudizio.
Il clamore mediatico destato dalla sentenza n. 37/2015, a volte alimentato da affermazioni non ponderate ed iniziative non sempre responsabili, potrebbe indurre alcuni contribuenti ad adire la via giudiziaria, con conseguente dispendio di tempo e risorse da destinare a miglior causa.
L’Amministrazione è obiettivamente preoccupata all’idea di gestire un contenzioso inutile senza riflessi positivi sul rapporto con i contribuenti, ma l’esito scontato del giudizio e le conseguenze della soccombenza, in termini di condanna alle spese di lite, non andrebbero sottovalutati dai ricorrenti.