Il coraggio di crescere per poter semplificare
La scelta del tema del Congresso nazionale è particolarmente felice, ma anche molto pericolosa.
Pericolosa perché è da 30 anni che sentiamo parlare di semplificazione, e nello stesso periodo di tempo, a forza di parlarne, siamo passati da tre o quattro adempimenti a trenta o quaranta. L’esperienza suggerirebbe di smettere di parlarne e passare drasticamente ai fatti. Ma proprio per questo la scelta è felice. L’autorevolezza e la rappresentatività di tutti coloro che parteciperanno al dibattito è così elevata che questo Congresso ben potrebbe rappresentare una svolta, un punto di ripartenza.
Non vi è alcun dubbio, la crescita passa anche attraverso la semplificazione.
La Grecia ha mostrato plasticamente che un modello economico basato esclusivamente su turismo, pensioni e pubblico impiego non porta da nessuna parte. Una società complessa come la nostra, composta da decine di milioni di individui, per sopravvivere ha bisogno di un consistente e variegato tessuto produttivo. È inutile e disonesto continuare a girarci intorno, bisogna fare in modo che le cose si facciano in Italia, o meglio tornino a farsi in Italia, perché solo dove si fanno le cose c’è possibilità di creare ricchezza e solo dove c’è ricchezza robusta, c’è speranza che ce ne sia un po’ per tutti. Nei paesi dove la ricchezza è poca, inevitabilmente si concentra nelle mani di pochi.
Dunque è indispensabile e improcrastinabile fare qualcosa di veramente incisivo.
In primo luogo perché il proliferare di adempimenti cui abbiamo assistito in questi decenni sembra essere stato totalmente inutile, almeno rispetto alla principale ragione per cui è stato posto in essere: la lotta all’evasione fiscale. Infatti, se sono veri i dati che vengono periodicamente sbandierati, gli importi evasi continuano ad essere stratosferici e non accennano a diminuire.
Anzi, sul punto varrebbe proprio la pena di aprire anche una pacata riflessione su tutto l’armamentario antievasione posto in essere in questi decenni, perché delle due l’una o i provvedimenti introdotti con finalità antievasione producono una progressiva riduzione dell’evasione fiscale oppure tanto vale lasciare perdere e risparmiare almeno i soldi spesi per le risorse impegnate nella lotta all’evasione stessa. Se fossimo un supermercato e continuassimo a riferire alla direzione che i furti non accennano a diminuire nonostante i presìdi e gli addetti alla sorveglianza aumentino vertiginosamente ogni anno, forse la direzione ci inviterebbe a riconsiderare radicalmente la politica di gestione della sicurezza.
In secondo luogo, perché la miriade di graticole burocratiche oggi esistenti drena una quantità immensa di risorse a cittadini e imprese, contribuendo a rendere l’Italia il peggior posto del mondo per fare qualsiasi cosa. E, cosa ancor più grave, altera gravemente in peggio le condizioni in cui le imprese italiane devono operare rispetto alla concorrenza internazionale.
Per questo appare così interessante l’ipotesi lanciata dall’onorevole Zanetti di semplificare nel senso di accorpare in un’unica scadenza, o almeno in pochissime scadenze, i versamenti tributari. Riuscire a concentrare gli adempimenti fiscali nel primo semestre dell’anno avrebbe due effetti benefici fondamentali: da un lato eviterebbe questo continuo stillicidio di richieste di denaro ai cittadini, che per certi versi è fin imbarazzante, dall’altra permetterebbe ai commercialisti di tornare a fare i consulenti di impresa, occupandosi almeno per la metà dell’anno di gestione del business, lasciando da parte per qualche mese il riempimento di moduli, la trasmissione di file e il calcolo di questo o quel balzello.
Naturalmente non sfugge a nessuno che qualsiasi intervento davvero incisivo non potrà essere, almeno per qualche tempo, a costo zero. Occorrerà la disponibilità del Governo a scelte coraggiose, che volgano risorse in questa direzione. Risorse che sappiamo essere sempre poche, dunque da trattare con rispetto religioso.
Anche quando si tratta di spendere bisognerebbe infatti mostrare la stessa attenzione che registriamo nel prelevare le tasse dalle tasche dei cittadini, visto che un omesso versamento di pochi euro viene sanzionato.
A questo proposito, abbiamo avuto modo di osservare che una parte rilevantissima del bilancio statale se ne va in pensioni e che una parte rilevante di queste pensioni non è coperta da contributi versati, rimanendo appunto a carico della fiscalità generale.
Sotto questo profilo è eclatante il caso di un noto politico, che, all’età di 57 anni è già in pensione con un assegno mensile di 5.618 euro lordi (tra l’altro per avere quella cifra di pensione occorre mettere insieme almeno quattro o cinque vite lavorative di operai metalmeccanici). Augurandogli di vivere almeno fino ad 85 anni, incasserà più o meno 1.900.000 euro lordi. È del tutto evidente che quella cifra non è coperta da contributi se non in minima parte.
Si tratta, per la parte non coperta, di una donazione che le generazioni presenti e future fanno al noto politico. Il problema è che di situazioni del genere ce ne sono una infinità e gravano come un macigno sui giovani e sul ceto produttivo.
Se è fondamentale che le cose che si facciano in Italia, altrettanto importante è che le risorse prodotte in Italia tendenzialmente vi rimangano.
Anche dall’INPS abbiamo avuto informazione che molte pensioni vengono spese all’estero, perché cittadini pensionati, legittimamente, decidono di trascorrere gran parte del loro tempo in un paese che non è Italia.
Ecco allora, elaborando un po’ quel che di recente si è sentito anche da fonte molto autorevole, una piccola proposta di semplice coerenza.
Così come riteniamo che debbano essere tassati in Italia tutti redditi di un soggetto, se questi ha vissuto in Italia almeno la metà del periodo d’imposta, allo stesso modo possiamo pretendere che la parte di pensione non coperta da contributi spetti soltanto a chi vive in Italia almeno metà del periodo d’imposta.
E magari, con l’occasione, anche il diritto a prestazioni sanitarie totalmente gratuite.
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