Il criterio del deficit fallimentare resta praticabile
La Cassazione, nella sentenza n. 832/2018, ricorda come le Sezioni Unite n. 9100/2015 abbiano precisato che il criterio della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare (criterio del deficit fallimentare) può essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa dei danni cagionati alla società, e sempre che il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, a condizione che l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.
In particolare, come ribadito dalla Cassazione n. 19733/2015, quando il giudice, nel procedere alla quantificazione del danno risarcibile, si avvale del criterio equitativo in questione, deve indicare:
- da un lato, le ragioni per le quali l’insolvenza sarebbe stata conseguenza di condotte gestionali dell’amministratore;
- dall’altro, quelle per le quali l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste e il danno allegato sarebbe precluso dall’insufficienza delle scritture contabili.
È, invece, insufficiente il mero confronto tra la situazione patrimoniale della società all’inizio della gestione condotta dal ricorrente e quella al momento della dichiarazione di fallimento.
È ritenuta, quindi, corretta la decisione di merito che ha utilizzato il suddetto criterio a fronte di una precisa condotta dell’amministratore (una delibera di aumento di capitale di cui era stato protagonista) e in assenza di contabilità a decorrere da molti anni addietro.
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