L’identità dell’autore spiega la necessaria concretezza dissimulatoria nell’autoriciclaggio
La Cassazione, nella sentenza n. 7860/2020, ha affermato che la precisazione contenuta nell’art. 648-ter.1 c.p. – secondo la quale le condotte ivi contemplate, per integrare la fattispecie di autoriciclaggio, devono essere tali da ostacolare “concretamente” l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni che ne costituiscono oggetto – potrebbe trovare una ragionevole spiegazione nel fatto che la norma sul riciclaggio presuppone che non vi sia identità tra l’autore del reato “presupposto” e colui che abbia realizzato la condotta tipica del delitto di cui all’art. 648-bis c.p., realizzandosi in tal modo una prima “frattura” (sul piano dei soggetti interessati) nella “circolazione” del bene di provenienza illecita; laddove, invece, l’autoriciclaggio abbia esteso l’ambito della rilevanza penale a condotte poste in essere direttamente dall’autore del reato presupposto.
Pertanto, mancando questo primo “iato”, sul piano soggettivo, si richiede una (per l’appunto) “concreta” e in qualche modo “intrinseca” capacità e idoneità decettiva ovvero qualcosa di più specifico rispetto a quanto era stato previsto per la condotta (pur decettiva) di riciclaggio.
In quest’ottica, afferma allora la Suprema Corte, si spiega per quale ragione si siano ritenute non integranti condotte di autoriciclaggio:
- il mero trasferimento di somme, oggetto di distrazione fallimentare, a favore di imprese operative, occorrendo a tal fine un quid pluris che denoti per l’appunto l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (cfr. Cass. nn. 38919/2019 e 8851/2019);
- il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del reato presupposto (cfr. Cass. nn. 51933/2019 e 33074/2016).
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