Commercialisti in crisi d’identità, divisi nella forma e indecisi nella sostanza
Gentile Redazione,
nel lungo percorso della professione ordinistica dei Dottori Commercialisti, ciò che colpisce è la ricorrenza con cui riemergono conflitti interni, tensioni mai del tutto sopite, divisioni che si rinnovano a ogni cambio di vertice. È un fenomeno noto, eppure mai affrontato fino in fondo. L’impressione è che la categoria non riesca a trovare un equilibrio duraturo tra leadership forte e partecipazione condivisa. L’ultimo caso, legato alla figura del consigliere De Tavonatti, ha riacceso un malessere latente. Una vicenda che, al di là del merito, ha riportato alla luce dinamiche divisive, sospetti, personalismi, e ancora una volta una distanza palpabile tra il vertice e la base della categoria. Non è un fatto isolato, ma l’ennesima espressione di un sistema che fatica a rinnovarsi.
Le fratture non sono nuove. Il passaggio epocale del 2008, con l’unificazione tra Dottori Commercialisti e Ragionieri, ha lasciato segni profondi. Le tensioni tra territori, la gestione delle rappresentanze, il peso delle grandi piazze rispetto ai piccoli ordini, sono nodi mai sciolti che continuano ad alimentare una conflittualità latente. Le presidenze che si sono susseguite – da Siciliotti a Longobardi, fino all’attuale de Nuccio – hanno cercato ciascuna una propria direzione, ma nessuna è riuscita davvero a costruire un’identità professionale unitaria. Si alternano fasi di attivismo e centralizzazione a momenti di apparente dialogo, ma il filo che lega tutte le stagioni è la difficoltà di costruire un vero spirito di corpo. Troppo spesso, le assemblee diventano luoghi di conta e non di confronto; le nomine, espressione di equilibri più che di merito.
Molti professionisti oggi si sentono spettatori più che attori. Le scelte strategiche vengono vissute come lontane, calate dall’alto, spesso poco trasparenti. In questo clima, qualsiasi episodio, anche il più tecnico o marginale, può diventare detonatore di divisioni profonde. Il problema non è solo di metodo, ma di sostanza. La figura del presidente dovrebbe incarnare una visione condivisa, rappresentare tutta la categoria, anche chi non lo ha votato. E invece spesso si ha l’impressione di una gestione ristretta, autoreferenziale, chiusa a ogni confronto autentico.
Non si può trascurare un dato ormai evidente: negli ultimi tre mandati il Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti ha subito ben due commissariamenti. Un fatto che impone una riflessione profonda, tanto più considerando che anche il mandato attualmente in corso si sta avviando alla conclusione tra non poche tensioni. Un punto cruciale da interrogare è il sistema elettorale: non sarà forse proprio da lì che nasce la crescente frammentazione della categoria? Le liste contrapposte, infatti, tendono ad accentuare le divisioni, alimentando dinamiche di contrapposizione più che di costruzione condivisa. Al contrario, un sistema basato sul voto diretto alla base, senza liste, potrebbe favorire una maggiore partecipazione, una selezione più autentica dei rappresentanti e un senso di appartenenza più diffuso.
Infine, non si può ignorare un’altra criticità: le spese sostenute dal Consiglio nazionale, spesso percepite come sproporzionate. Si ha l’impressione che le elezioni finiscano per diventare una fonte di potere (e di spesa) per chi le vince, piuttosto che un momento di selezione meritocratica e trasparente dei migliori profili a servizio della professione.
Nel frattempo, i commercialisti combattono ogni giorno una battaglia solitaria: normative complesse, continui cambi di regole, digitalizzazione senza supporto, clienti in difficoltà, compensi in calo. Tutto questo aumenta il senso di frustrazione e alimenta la domanda di una rappresentanza più presente, più concreta, più vicina. Il malessere è trasversale: riguarda i giovani che faticano a trovare spazio, le donne ancora sottorappresentate, i colleghi dei piccoli centri che non si sentono ascoltati. Non è solo un problema di comunicazione, ma di struttura e di visione.
Il futuro della professione non può reggersi sulla somma di interessi individuali o di equilibri precari. Servono regole chiare, trasparenza, rispetto per le diversità interne, e soprattutto un metodo nuovo, capace di trasformare il conflitto in occasione di crescita. In questo senso, torna attuale una frase di Norberto Bobbio: “Il problema non è la discordia, ma l’incapacità di trasformarla in progresso.” La categoria ha tutte le risorse per cambiare rotta: competenze, esperienza, autorevolezza. Ma serve un cambio di passo. Serve il coraggio – finalmente – di costruire un’identità condivisa che parta dall’ascolto, dalla partecipazione vera e da una leadership al servizio della comunità professionale, non solo della sua gestione.
Eros Ceccherini
Presidente FDCEC Firenze
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