Omessa distribuzione di utili illecita in caso di preordinazione dolosa
Il Tribunale di Milano torna sui limiti della discrezionalità della decisione della società
Il Tribunale di Milano, nella sentenza del 30 settembre scorso, ribadisce alcuni importanti principi in materia di distribuzione di utili a fronte della reiterata impugnazione, da parte del socio di minoranza di una spa, delle delibere assembleari con le quali, per più anni, si decideva di destinarli a riserva straordinaria.
In particolare, si contestava l’esistenza delle ragioni addotte a sostegno di tale scelta, ossia la necessità di far fronte a importanti investimenti della società nell’ipotesi di proroga di una concessione demaniale marittima a proprio favore (istanza di proroga rigettata dal Comune con decisione confermata dal TAR e impugnata dinanzi al Consiglio di Stato); ciò anche alla luce della rilevante liquidità di cui disponeva la società. Circostanze che, dal punto di vista del socio di minoranza che agiva in giudizio, rivelavano un mero intento persecutorio da parte dei soci di maggioranza a suo danno (nella specie, anche al fine di indurlo a cedere la propria quota).
Rispetto a tali rilievi i giudici milanesi sottolineano come:
- la scelta di non distribuire l’utile d’esercizio debba ritenersi espressione fisiologica del potere riconosciuto dalla legge alla maggioranza assembleare di deciderne la destinazione, corrispondente a valutazioni e scelte imprenditoriali insindacabili;
- l’accantonamento o il reimpiego degli utili nell’interesse della società è censurabile solo se frutto di iniziative dei soci di maggioranza volte ad acquisire posizioni di indebito vantaggio a danno degli altri soci;
- grava sul socio di minoranza che impugna la delibera di non distribuzione di utili l’onere di provare in giudizio che tale scelta abbia ingiustificatamente sacrificato la sua legittima aspettativa a percepire la remunerazione del suo investimento, avendo rivestito carattere abusivo perché volta intenzionalmente a perseguire un obiettivo antitetico all’interesse sociale o a provocare la lesione della posizione di alcuni soci in violazione del canone di buona fede oggettiva che, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., deve informare l’esecuzione del contratto sociale, dove l’esercizio in comune dell’attività economica avviene proprio allo scopo di dividerne gli utili.
E allora, qualora l’organo amministrativo collochi alla base della proposta di destinare gli utili a riserva straordinaria la necessità di attendere l’esito di giudizi pendenti, il carattere discrezionale di tale ponderazione rende insindacabile la decisione poi assunta dall’assemblea dei soci, consistente in una scelta imprenditoriale di ponderazione del rischio e perciò rimessa alla libera valutazione dell’organo sociale.
In particolare, l’incidenza della probabilità o prevedibilità di accoglimento del ricorso rientra nella valutazione di opportunità rimessa a tale organo.
Tale decisione non mostra indici di mala fede tali da poter configurare un abuso della maggioranza diretta a ledere le ragioni del socio di minoranza.
Ciò in quanto:
- da un lato, l’eventuale errore valutativo in ordine alla probabilità di pronuncia favorevole o sfavorevole – sull’impugnazione del diniego della proroga della concessione – non è sufficiente a configurare un pregiudizio a danno del socio di minoranza, essendo necessaria una preordinazione dolosa della condotta dei soci di maggioranza, nella specie non riscontrata;
- dall’altro, gli utili destinati a incrementare le riserve sono, comunque, accrescitivi del patrimonio netto della società a beneficio del valore di liquidazione o di scambio della partecipazione sociale, anche di minoranza, oltre che volti a realizzare l’interesse all’autofinanziamento dell’impresa sociale. Neppure sotto tale profilo, quindi, è configurabile una preordinazione dolosa da parte dell’organo sociale.
Nel caso esaminato dai giudici milanesi, quindi, il socio di minoranza non forniva la prova né di un pregiudizio nei suoi confronti né di una lesione della sua aspettativa alla percezione degli utili (aspettativa non configurabile in ragione del fatto che da diversi anni gli utili venivano destinati a riserva straordinaria).
Si tenga presente, infine, che l’ostinazione con la quale il socio di minoranza reiterava la medesima richiesta in relazione alle delibere succedutesi in materia, senza l’intervento di significative modifiche di fatto o di diritto – e, quindi, in considerazione della ancora attuale pendenza del giudizio amministrativo di cui si è detto – comporta la condanna dello stesso per lite temeraria ex art. 96 comma 3 c.p.c.
E ciò tenuto conto della evidente infondatezza e pretestuosità delle azioni svolte, con conseguente abuso del diritto di impugnare. In particolare, il risarcimento del danno da lite temeraria è liquidato equitativamente in 4.000 euro (pari a un terzo dell’ammontare delle spese processuali), tenuto altresì conto del tempo e delle energie profuse dalla società convenuta per contrastare le infondate pretese del socio di minoranza, nonché della durata e della complessità del processo.
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