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LAVORO & PREVIDENZA

Divieto di monetizzazione anche per il dirigente se rinuncia alle ferie

Spetta al datore provare di aver adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite

/ Federico ANDREOZZI

Venerdì, 23 maggio 2025

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Con l’ordinanza n. 13691 depositata ieri, 22 maggio 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di monetizzazione delle ferie dei dirigenti, chiarendo quali siano i presupposti per escludere tale diritto.

Il caso di specie vedeva protagonista una lavoratrice, dirigente ANAS, che agiva nei confronti della datrice di lavoro per ottenere il pagamento del residuo di ferie non godute per gli anni antecedenti al licenziamento disciplinare.
I giudici di merito respingevano le domande della lavoratrice. In particolare, la Corte d’Appello faceva propria un’interpretazione del divieto di monetizzazione delle ferie non godute di cui all’art. 5 comma 8 del DL 95/2012, tale da ricomprendervi tutte le vicende estintive del rapporto di lavoro alle quali il lavoratore concorre attivamente mediante il compimento di atti – quali le dimissioni – oppure attraverso comportamenti incompatibili con la permanenza del rapporto (quindi, pensionamento, mancato superamento del periodo di prova, ma anche licenziamento disciplinare).

I giudici di seconde cure, a fondamento della propria decisione, richiamavano altresì l’orientamento della Cassazione per cui il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza da parte del datore di lavoro, non lo eserciti e non fruisca del periodo di interruzione della prestazione lavorativa annuale, non ha diritto alla indennità sostitutiva a meno che non provi di non aver potuto fruire del riposo a causa di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive (Cass. nn. 4920/2016 e 13953/2009).

A fronte di ciò, la dirigente presentava ricorso in Cassazione, asserendo l’erroneità di un’applicazione indiscriminata del divieto di monetizzazione delle ferie, anche in caso di cessazione del rapporto per licenziamento disciplinare, dovendo applicarsi, tale divieto, a seconda dei casi concreti e delle peculiarità della fattispecie.

La Suprema Corte accoglie il ricorso della lavoratrice.
Rievocando i principi eurounitari e interni in merito al godimento delle ferie e al connesso divieto di monetizzazione, i giudici di legittimità sottolineano come le ferie annuali retribuite costituiscano un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore – a cui è tuttavia intrinsecamente connesso il diritto alla indennità finanziaria sostituiva delle ferie non godute al termine del rapporto – e, al tempo stesso, si sostanzino in un obbligo per il datore di lavoro.

Grava, pertanto, in capo a quest’ultimo l’onere di provare di aver adempiuto al proprio obbligo di concedere le ferie medesime. Infatti, la perdita del diritto alle ferie e, quindi, alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto, può verificarsi solamente nel caso in cui il datore offra la prova di aver invitato il lavoratore a godere delle ferie e di averlo al contempo avvisato – con modalità adeguate ed in tempo utile a garantire che le stesse siano ancora tali da offrire un effettivo riposo con il conseguente recupero delle energie – della circostanza per cui, se egli non ne fruisca, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, secondo un meccanismo che la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto all’istituto della mora credendi (Cass. 1° febbraio 2018 n. 2496).

La Corte quindi conclude, statuendo come, sebbene il menzionato art. 5 comma 8 del DL 95/2012 debba essere interpretato in modo tale da ricomprendere nel divieto di monetizzazione qualsivoglia causa di cessazione del rapporto – quindi anche i licenziamenti – gli orientamenti giurisprudenziali, nazionali ed eurounitari, impongano di consentire l’operatività di tale divieto solo nell’ipotesi in cui il lavoratore, anche se dirigente, abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto fondamentale alle ferie e vi abbia consapevolmente rinunciato.
Nel caso di specie, la Corte territoriale avrebbe errato nell’addossare in capo alla dirigente l’onere di provare di non aver potuto fruire del riposo a causa di necessità aziendali eccezionali e obiettive, non conformandosi ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità.

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