Bancarotta prefallimentare punibile solo nella «zona di rischio penale»
Ai fini della prova del reato vanno verificati il tempo in cui la distrazione avviene e la qualità del distacco patrimoniale che consegue
Il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è reato di pericolo concreto, in quanto l’atto di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio sociale, deve essere idoneo a creare un pericolo reale per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, che deve permanere fino al tempo che precede l’apertura della procedura fallimentare.
Pertanto, ai fini della prova del reato previsto dall’art. 216 del RD 267/42 (oggi confluito nell’art. 322 del DLgs. 14/2019) il giudice, oltre alla constatazione dell’esistenza dell’atto distrattivo, deve valutare la qualità del distacco patrimoniale che a esso consegue, ossia il suo reale valore economico concretamente idoneo a recare danno ai creditori (Cass. n. 28941/2024).
Tale interpretazione, mossa da una lettura rispettosa dei principi costituzionali, impone di valutare la rilevanza penale delle condotte e la loro offensività in base all’idoneità a priori degli atti depauperativi a mettere realmente a rischio la garanzia dei creditori della massa fallimentare, in un parametro spazio-temporale ragionevole (la “zona penale di rischio”).
Si intende per “zona di rischio penale” quella che in dottrina viene comunemente individuata come “prossimità dello stato di insolvenza”, quando l’apprezzamento di uno stato di crisi, normalmente conosciuto dall’agente imprenditore o figura equiparata, è destinato a orientare la “lettura” di ogni sua iniziativa di distacco dei beni – fatte salve quelle inquadrabili nelle altre ipotesi di reato pure previste dalla legge fallimentare – nel senso della idoneità a creare un pericolo per l’interesse dei creditori sociali.
Si tratta del tema dell’offensività reale della condotta contestata, su cui torna a pronunciarsi la Corte di Cassazione nella sentenza n. 35403 depositata ieri.
Viene così ribadita la necessità di “abbandonare posizioni ermeneutiche che schiacciano in termini assertivi la prospettiva della ricerca della prova del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale pre-fallimentare sul punto genetico del distacco, senza esplorare ed approfondire i caratteri qualitativi di tale distacco patrimoniale”.
Vale a dire che è necessario che il giudice penale faccia riferimento innanzitutto al tempo in cui la distrazione avviene. Ciò poiché lontano dalla fase di crisi o di insolvenza, e soprattutto quando l’impresa o la società sono “in bonis”, l’imprenditore può dare dinamicamente a singoli propri beni le destinazioni che ritiene utili alla conservazione del valore del patrimonio sociale nel suo complesso, senza che possa essere esasperato il concetto secondo cui l’atto distrattivo rileva in qualsiasi tempo sia stato commesso precedentemente al fallimento.
In secondo luogo, va verificata la “qualità” oggettiva dell’atto di depauperamento, e cioè il suo valore economico reale e la sua concreta idoneità a porre in pericolo la garanzia che la massa dei creditori, al momento del fallimento, sarà in grado di escutere.
Ciò comporta anche che il dolo del reato dovrà essere verificato con particolare cura laddove, come nel caso di specie, sia trascorso un tempo considerevole tra l’unica operazione economica ritenuta depauperativa e la dichiarazione di fallimento.
La Cassazione precisa, infine, che non deve confondersi l’esposizione a pericolo, sufficiente per l’integrazione del reato, con il danno alla massa dei creditori, requisito non richiesto dalla norma come essenziale e che costituisce un “post-factum”, anche perché l’assenza di danno non è essa stessa prova di mancata esposizione a pericolo. Tale assenza, infatti, potrebbe derivare dalla complessiva attività di recupero posta in essere, dopo il fallimento, dal curatore, con individuazione di assi patrimoniali capaci di neutralizzare le esposizioni passive.
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