Al commercialista «infedele» dovremmo chiedere i danni
Lo scandalo del giro di tangenti per l’aggiustamento delle verifiche e delle contestazioni fiscali, emerso a seguito delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza nel Vicentino (si veda “Commercialisti ai domiciliari per un giro di tangenti a Vicenza”, di ieri, 17 giugno 2010), ha avuto un’eco devastante in Veneto e ha trovato ampissimo spazio su tutte le testate giornalistiche nazionali.
I numeri d’altro canto sono imponenti: due milioni di euro di tangenti, 7 persone arrestate, 77 complessivamente indagate.
Sono purtroppo imponenti anche i numeri che riguardano specificamente la nostra professione: a quanto pare, infatti, tra gli arrestati vi sarebbero 6 commercialisti ed altri 12 ve ne sarebbero tra gli indagati. Nel sistema di corruzione non soltanto commercialisti, ma anche funzionari dell’Agenzia delle Entrate e imprenditori; tuttavia, basta leggere i giornali, per vedere il risalto dato alla componente commercialistica.
Un vero pugno nello stomaco per chi svolge la professione con l’onestà e la moralità che gli è consona e che, ciò nonostante, sa perfettamente come pubblicità negative di questo tipo valgono purtroppo nell’immaginario collettivo più di mille pagine acquistate sui giornali per lanciare messaggi positivi. Dopodiché è inutile piangersi addosso. L’enfasi data alla componente commercialistica è solo l’esteriorizzazione di pregiudizi inaccettabili: di fronte a sistemi tanto trasversali e così drammaticamente italiani non ha senso dividersi tra funzionari pubblici, commercialisti, imprenditori e semplici cittadini, perché l’unica divisione sensata e davvero importante è quella altrettanto trasversale tra onesti e disonesti. Vorrei dunque proporre un paio considerazioni - provocazioni.
La prima: siamo sicuri che non sia arrivata l’ora di riformare in profondità le regole che sovrintendono ai procedimenti disciplinari? Oggi questi procedimenti sono improntati a bizantinismi formali a dir poco defatiganti per i colleghi che siedono negli Ordini locali e i tempi spesso si dilatano a dismisura anche in presenza di fatti evidenti così come per la “mera” comminazione di sanzioni disciplinari di entità secondaria. Inoltre, la necessità di procedere con i classici “piedi di piombo” è amplificata dalle enormi responsabilità cui quegli stessi colleghi sono esposti nel caso in cui il provvedimento disciplinare comminato venga poi ribaltato. Viva il garantismo, per carità, ma l’effetto finale è quello di renderci molto simili alle pubbliche amministrazioni che, giustamente, critichiamo e guardiamo dall’alto in basso, trovando assurdo che per licenziare un dipendente pubblico ci vogliano dieci anni anche quando viene beccato con le mani nella marmellata. Siamo i protagonisti del cambiamento? Cominciamo anche da queste cose. Senza contare che, nella gara a chi è più garantista, non dobbiamo dimenticarci come il nostro impianto disciplinare è, per fortuna, improntato non soltanto al rispetto formale della legge, ma anche al rispetto sostanziale della deontologia professionale. Un sistema disciplinare ancorato al rispetto della deontologia dovrebbe assomigliare più alla giustizia sportiva che non alla giustizia civile: per essere sanzionati può bastare anche la sola prova dell’aver tenuto comportamenti idonei a generare il legittimo sospetto del compimento di atti illeciti, senza bisogno di arrivare per forza alla più complessa prova che quei comportamenti siano poi stati concretamente consumati. È troppo? Ma allora a cosa serve la deontologia? Limitiamoci al rispetto della legge ed eliminiamo questo fondamento del nostro essere liberi professionisti, se non abbiamo il coraggio di trarne le conseguenze.
Seconda considerazione - provocazione: quando viene sbattuto in prima pagina e poi definitivamente accertato che un iscritto all’Albo ottiene vantaggi illeciti, per sé e per i propri clienti, mediante il ricorso a tangenti a pubblici funzionari compiacenti, non è forse vero che, in linea di principio, gli altri iscritti subiscono un danno di immagine, cui si aggiunge la presa d’atto di una concorrenza sleale operata da parte del collega, posto che un commercialista preparato, ma onesto, non potrà mai competere, in meri termini di risultato, con uno che magari non sa neanche dove sta di casa il TUIR, ma olia le porte giuste con la disinvoltura del primo faccendiere che passa? E non si potrebbe, allora, ipotizzare che l’istituzione, un sindacato di categoria o singoli professionisti – supportati però dagli enti di cui sopra – facciano causa al commercialista infedele per risarcimento del danno di immagine e per risarcimento del danno da concorrenza sleale? Perché una cosa deve essere ben chiara a tutti i componenti della grande “famiglia” dei commercialisti italiani: anche se i luoghi comuni ci vogliono ancora come casta di privilegiati, noi sappiamo benissimo che, come privilegio, abbiamo solo ed esclusivamente la nostra integrità, la nostra capacità intellettuale e il prestigio del titolo professionale. Per cui, chi ci stropiccia l’ultimo, gettando ombre sui primi due, ce la deve pagare caramente.
Come detto, sono considerazioni - provocazioni, ma sarebbe bello sentirle dibattute, anche solo per liquidarle come irricevibili, a qualche consesso istituzionale o sindacale di categoria, tra un volare “alto” nella politica generale e un volare “basso” nella politica professionale.
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