I primi a insegnare l’elusione sono i nostri parlamentari
L’elusione non coincide con il risparmio fiscale e può riguardare altri ambiti del diritto, contrariamente a quanto dichiarano tanti politici e sindacalisti
Venerdì scorso, in quel di Catania, ho avuto il piacere di moderare una tavola rotonda, organizzata nell’ambito del congresso nazionale dell’Unione giovani dottori commercialisti ed esperti contabili, dal titolo “Il dottore commercialista quale garante dell’economia legale”. Tra i relatori, oltre ai Presidenti nazionali Carunchio e Siciliotti, nonché altri colleghi in rappresentanza di sigle sindacali di categoria, anche alcuni onorevoli che ben conoscono la nostra categoria: Alessandro Pagano (PDL), Francesco Boccia (PD) e Antonino Lo Presti (FLI). Quest’ultimo, in particolare, ha tra le altre cose richiamato l’attenzione su come i commercialisti italiani debbano sempre più proseguire nel loro percorso di responsabilizzazione e rendersi sempre più parte diligente nel contrastare non solo l’evasione fiscale, ma anche l’elusione.
Premetto che l’onorevole Lo Presti è senza dubbio uno dei parlamentari che dimostrano nei fatti di dimostrare reale riguardo nei confronti dei commercialisti e che, infatti, ha espresso questi concetti con un rispetto che forse altri non avrebbero avuto. Proprio pensando a questi altri, però, è opportuno mettere alcuni puntini sulle “i”, in questi tempi in cui sembra che l’unica vergogna di questo Paese, da condannare “senza se e senza ma”, sia l’evasione fiscale e in questi tempi in cui una giurisprudenza sempre più disinvolta sembrerebbe essersi data come missione quella di rendere sostanzialmente coincidenti i concetti di risparmio fiscale e di elusione. Quando un politico o un sindacalista della triplice parlano di elusione e cattivi consiglieri nel salotto televisivo di turno, sanno di cosa parlano?
L’elusione è l’utilizzo di norme secondo modalità formalmente aderenti al loro dettato, ma nella sostanza volte ad addivenire ad un risultato contrario alle logiche del sistema, carpendo così, come sintetizza la più autorevole dottrina, la buona fede del legislatore. A parte che, se questa è la definizione dell’elusione, mi verrebbe da dire che in Italia è a dir poco difficile farne in ambito fiscale (atteso che di buona fede il legislatore fiscale, sempre più affamato di gettito, ne dimostra assai poca da una quindicina d’anni a questa parte), vorrei ricordare ai nostri onorevoli che l’elusione può riguardare anche altri ambiti del diritto.
Un esempio? Prendere una legge che dice che un sindaco di un Comune con oltre 20.000 abitanti e un presidente di Provincia non possono essere eletti in Parlamento (art. 7 del Testo unico del 30 marzo 1957 n. 361) e interpretarla nel senso che non si deve comunque intendere vietato il contrario, ossia che un parlamentare possa farsi eleggere sindaco o presidente di provincia e mantenere il doppio incarico (stupefacente interpretazione adottata il 2 ottobre 2002 dalla Giunta delle elezioni della Camera e da allora sempre applicata con progressiva proliferazione dei doppi incarichi).
Purtroppo il problema è sempre quello: manca una classe dirigente rigorosa, capace di dare l’esempio partendo da se stessa e, quindi, condannata al silenzio o, quando parla, alla sfacciataggine. Non è così per tutti i nostri politici, ovviamente, ma sarei incerto se dovessi scegliere tra il parlare di mele marce o di lodevoli eccezioni.
Nel caso dei commercialisti, invece, credo siano i fatti a dimostrare come la grande maggioranza svolga responsabilmente il suo ruolo.
Se così non fosse, anziché vedere ad ogni convegno di aggiornamento fiscale centinaia di commercialisti che si affannano a capire come assoggettare ad IVA una medesima operazione il cui trattamento cambia tre o quattro volte a seconda di chi vende, chi compra e come vende e quando compra, si assisterebbe a un puro e semplice crollo del gettito fiscale. Perché è del tutto evidente che, ove mancasse questo senso di responsabilità, il consiglio più diffuso sarebbe quello di dichiarare il minimo anche al di là delle proprie risultanze contabili; mettere da parte il risparmio derivante dall’evasione; confidare nel calcolo percentuale tra possibilità di una verifica e ricorrenza di un condono o di uno scudo fiscale; alla peggio chiudere in acquiescenza fruendo dei fortissimi abbattimenti delle sanzioni.
Questo però non accade, se non in un numero di casi assolutamente minoritario.
Perché? Perché, per la grande maggioranza dei commercialisti italiani, la parte della professione che riguarda il rapporto tra fisco e contribuente è dedicata non all’aggiramento della legge, ma alla sua corretta applicazione, nonostante la complessità talvolta ottusa, cercando ovviamente la soluzione lecitamente meno gravosa per il cittadino-cliente.
Inutile dire che, per riuscire a vedercelo riconosciuto, uno dei passaggi obbligati è quello della inflessibilità verso chi sbaglia. Abbiamo l’orgoglio di essere una professione senza barriere all’entrata. Costruiamo il coraggio di essere anche una professione senza barriere all’uscita.
Vietata ogni riproduzione ed estrazione ex art. 70-quater della L. 633/41