Una gioventù senza pensioni in un Paese di burloni
I lavoratori c.d. «precari» avranno una pensione pari a quella sociale, ma non reagiscono, facendo così il gioco di imprese, sindacati e politica
In occasione di un convegno organizzato da Ania e Consumatori, Antonio Mastrapasqua, presidente dell’INPS, ha ricordato che l’istituto da lui presieduto si appresta ad inviare ad oltre 4 milioni di lavoratori parasubordinati le comunicazioni che spiegano come consultare on line la propria posizione previdenziale, in modo da poter vedere i contributi che risultano effettivamente versati.
Non sarà possibile però effettuare anche simulazioni della pensione che, proiettando prospetticamente quel tipo di contribuzione, risulterebbe spettante al lavoratore parasubordinato.
Come mai questa scelta di “trasparenza calmierata”?
La risposta starebbe in una battuta fatta dallo stesso Mastrapasqua: “se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale” (virgolettato che noi traiamo dal Corriere della Sera del 6 ottobre 2010, pag. 29).
Immagino le risate ed i sorrisini saputi in platea e traggo due conclusioni.
La prima: siamo un Paese di battutari e barzellettieri.
Più un cittadino assume responsabilità di rilievo nella vita pubblica di questo Paese, più si sente in dovere di buttarla letteralmente in vacca.
Da questo punto di vista, tra i tanti che si sperticano in questa poco comprensibile corsa, va dato atto al direttore dell’INPS di aver scelto quanto meno un umorismo molto british, senza cadute di stile che altri ci hanno recentemente regalato a piene mani.
La seconda: i giovani di questo Paese sono morti che camminano.
È del tutto evidente che il livello delle prestazioni pensionistiche, che potranno essere erogate a chi verserà per un numero significativo di anni la contribuzione propria dei lavoratori parasubordinati (i c.d. “precari”), sarà sostanzialmente pari a quello delle pensioni sociali, ossia di quelle pensioni che si avrebbe in vecchiaia titolo a percepire anche in assenza di contribuzione.
È un’evidenza che deriva dall’esiguità delle remunerazioni su cui i contributi vengono applicati e pure dalla minore aliquota contributiva che complessivamente viene su di esse applicata, rispetto a quella che, tra parte a carico del lavoratore e parte a carico del suo datore di lavoro, viene applicata sulle remunerazioni dei dipendenti “fissi”.
D’altro canto, la precarizzazione del lavoro giovanile è figlia di una cinica scelta operata a suo tempo: chiamare flessibilità quella che è in realtà una mera politica di riduzione dei costi delle imprese e dello Stato, interamente addossata sulle giovani generazioni.
La vera flessibilità dovrebbe infatti implicare un costo aggiuntivo per il datore di lavoro: può scegliere tra una assunzione con contratto stabile ed una invece flessibile (ed è una scelta che deve assolutamente essergli data, nell’attuale contesto socio-economico globale), ma, se sceglie quella flessibile, gli costa un po’ di più, coerentemente al fatto che sta “comprando” un servizio ulteriore al mero lavoro, ossia appunto la sua flessibilità.
Su questo fronte, però, le imprese tacciono; i sindacati della triplice non sono disposti a sacrificare il diritto acquisito di alcuni a favore di una rimodulazione verso un diritto sostenibile e quindi ancora acquisibile da tutti; la politica latita o al massimo si concede l’ennesima barzelletta.
Né le cose vanno molto meglio sul fronte delle giovani generazioni di lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata INPS e di liberi professionisti iscritti alle rispettive casse di categoria.
Ma un moto di orgoglio ce la fanno ad averlo i trentenni e quarantenni di questo Paese?
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