Un Congresso che ha saputo proporre, comunicare ed emozionare
Parlare dei problemi del Paese non significa affatto trascurare quelli della categoria
Quali sensazioni lascia il II Congresso nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, appena celebrato a Napoli?
Nei prossimi giorni cercheremo di raccogliere qualche opinione “a freddo” di alcuni degli oltre 2.300 colleghi che vi hanno preso parte; ma anche di colleghi che a Napoli non c’erano, per capire quali sensazioni sono trapelate dai numerosi articoli e reportage che la stampa ha dedicato all’evento nei giorni scorsi. Perché, sul fatto che si sia trattato di un vero e proprio evento, piuttosto che di una mera assise congressuale, in cui una professione celebra periodicamente se stessa, con riti e parole oscure per tutti i “non iniziati”, non vi può essere dubbio che tenga.
Per alcuni, più abili a trovare il pelo nell’uovo che non a cucinarlo a dovere, il difetto del congresso potrebbe risiedere proprio in questo: si è parlato troppo degli “altri” e poco di “noi”. Come se parlare dei problemi del Paese non significasse parlare anche dei nostri problemi. Come se proporre quattro progetti di legge come quelli che sono stati presentati nella tre giorni congressuale (dedicati, rispettivamente, alla “costituzionalizzazione” del rapporto tra Fisco e contribuente; alla centralità del ruolo del professionista nel rapporto tra banche e PMI; alla possibilità di estendere alle micro-imprese e ai privati l’applicazione di procedure che consentano parziali esdebitazioni, in presenza di requisiti di meritevolezza e attestazioni del professionista; alla creazione di un nuovo modello societario ad hoc per l’associazione tra professionisti) significasse trascurare gli interessi della categoria e dei colleghi.
Poteva esserci qualche rivendicazione in più, qualche parola più dura verso una politica oggettivamente deludente e dilatoria, rispetto a temi come il riconoscimento delle associazioni private o ai decreti attuativi della revisione legale? A parte che, nella sua relazione di chiusura, Claudio Siciliotti ha ricordato espressamente tali questioni e non ha certo usato parole mielose nei confronti del Ministro della Giustizia Alfano, non dimentichiamoci che abbiamo ben sette (non uno: sette) sindacati di categoria che esistono proprio per fare questo.
Nel rispetto dei ruoli, è logico che l’istituzione svolga un compito di proposizione e accreditamento della categoria presso l’opinione pubblica, lasciando doverosamente ai sindacati il compito, se necessario, di alzare i toni, beneficiando peraltro di una maggiore possibilità di ascolto proprio in ragione del maggior accreditamento della nostra categoria che deriva dall’attività svolta dall’istituzione. Una sinergia che, se proprio bisogna trovare un neo a questo congresso, sarebbe meglio fosse valorizzata dagli stessi colleghi se, all’interno di un “evento contenitore” strutturato su ben dodici tavole rotonde, si consentisse ai sindacati di organizzarne congiuntamente un’altra, per confrontarsi sui temi sindacali e organizzativi della categoria. Dopodiché l’ingresso in sala è libero ed entra chi vuole, magari pochi, magari tanti, ma questa libertà, per l’appunto, diamola.
Per il resto, c’è ben poco da eccepire e Claudio Siciliotti merita al 100% l’ampio consenso di cui gode, pur nella ovvia perfettibilità delle sue parole, pensieri, opere e omissioni, come del resto è vero per tutti. Le prime pagine sul Sole 24 Ore e sul Corriere della Sera sono solo la punta dell’iceberg dell’attenzione che i media hanno riservato ai commercialisti italiani (e che punta dell’iceberg, per una categoria che fino a due anni e mezzo fa, se voleva uscire con qualche articolo su queste testate, doveva comprare le pagine come inserzionista). A tutti noi il compito non semplice, ma stimolante, di riempire questa attenzione di contenuti ed idee vere tutti i giorni che ci separano dal prossimo congresso di Bari nel 2012, perché ciascun congresso continui ad essere una delle vette di un arco montano ininterrotto, anziché uno splendido atollo sperduto nell’oceano del nulla.
Non si può, infine, prescindere da un accenno alla chiusura del congresso con Umberto Ambrosoli.
È stato un momento intenso. Non mi vergogno a dire che mi sono emozionato e che sono stato felice di condividerlo con mia moglie e i miei figli, con me a Napoli, cui ho ovviamente risparmiato i restanti lavori congressuali, al fine di evitare accuse di maltrattamenti psicologici, ma che ho voluto seduti vicino in un angoletto della grande sala, per un intervento che sapevo cosa avrebbe potuto trasmetterci. Un vero e proprio momento rispetto al quale si può dire che, chi non c’era, non ha avuto semplicemente torto: si è privato della possibilità di fare un atto di testimonianza; di ascoltare da una voce serena e quasi didascalica la granitica verità che le urla e gli schiamazzi viceversa offuscano, anche quando formalmente la propugnano; di guardarsi intorno e scoprire che la sua emozione non è quella di tutti, ma di moltissimi sì; di rafforzare la propria consapevolezza che, di fronte a cose che non ci convincono o, peggio, ci convincono della loro inaccettabilità, il metro di misura per valutare l’opportunità del nostro impegno e del nostro sacrificio non è la possibilità di incidere in concreto sugli eventi, ma il rispetto che abbiamo di noi stessi e l’esempio che vogliamo dare a chi stiamo crescendo. La vita è questo, tutto il resto è sovrastruttura.