Per la riforma fiscale non servono visionari, ma capacità di visione
Con i tempi che corrono, forse non ci sarà nemmeno la possibilità di sedersi concretamente ai tavoli convocati dal Ministro Tremonti per la definizione delle linee guida su cui innestare l’ipotetica riforma a 360 gradi del Fisco italiano.
Poco conta, però: il compito dei commercialisti italiani è quello di farsi trovare pronti.
Il lavoro che non dovesse essere finalizzato in questi tavoli tornerà comunque buono per l’immediato futuro e, ove si concretizzassero elezioni che appaiono sempre più probabili, potrà essere offerto a tutte le forze politiche perché, sui temi del fisco, facciano delle proposte dei commercialisti italiani il loro terreno di confronto.
Solo così la nostra professione potrà svolgere il suo ruolo di utilità al Paese, coniugando al contempo il legittimo interesse a vedersi riconosciuto, come categoria nel rapporto con le istituzioni e, a cascata, come singoli nel rapporto con i propri interlocutori, un ruolo di prestigio tecnico e di visione sociale.
Per arrivare a questo, è però evidente che dovremo saper avanzare idee e proposte di ampio respiro e vocazione sistematica.
In questa fase, il nostro compito deve essere quello di immaginare scenari, nella consapevolezza di avere tutte le capacità tecniche per consentirne poi la concreta traduzione in norme, istituti e provvedimenti, una volta che, grazie anche al nostro contributo, si sarà deciso quale direzione intraprendere.
Se, viceversa, ci facessimo prendere dalla foga di modificare questa o quella specifica disposizione che abbiamo constatato non funzionare o funzionare in modo illogico, stilando liste più o meno disorganiche di potenziali emendamenti, ci degraderemmo dai grandi architetti che possiamo legittimamente ambire ad essere a degli onesti geometri che propongono qualche intervento di manutenzione.
Parafrasando il ritornello di una buffa canzone-tormentone, molto in voga quando avevamo tutti parecchi anni meno di adesso, ci ridurremo ad essere quelli che entrano nella stanza dei bottoni cantando: “Quel comma qua devi metterlo là”.
Se non ridere, ci faremmo quanto meno sorridere dietro.
Ovviamente, arriverà il momento delle puntualizzazioni e delle formalizzazioni normative e, come detto, sarà il momento in cui la nostra praticità e la nostra profonda conoscenza, testata sul campo, di quello che non funziona, ci consentirà di fare uno scatto ulteriore rispetto a chi sa soltanto parlare.
Ora è però il momento della strategia, ossia della individuazione degli obiettivi, non quello della tattica, ossia dei modi attraverso i quali raggiungerli.
Da questo punto di vista, il Manifesto recentemente approvato dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili va nella direzione giusta, come per altro testimonia la grande eco che ha avuto sui media, a cominciare dall’onore della prima pagina sul Corriere della Sera di venerdì scorso.
Non male per una categoria che, fino ai primi mesi del 2008, era sostanzialmente ignorata dalla stampa generalista e, per uscire su quella specializzata, era inserzionista a pagamento.
Delle cinque condizioni, delle quattro linee prioritarie d’azione e dei dieci obiettivi fondamentali che vengono tracciati dal Manifesto, quello che merita la massima attenzione è il rilancio della centralità del lavoro e della produzione nelle architetture del fisco.
Il punto non è solo riequilibrare la tassazione tra redditi di derivazione patrimoniale e redditi di lavoro dipendente, autonomo o di piccola impresa.
Istanza comunque fondamentale, che porrebbe fine a un’assurda sperequazione che riguarda non tanto chi dichiara redditi di lavoro per 18.000 o 24.000 euro (tra deduzioni e detrazioni il loro prelievo non si discosta molto da quello delle rendite patrimoniali), ma soprattutto chi dichiara redditi di lavoro per 50.000, 70.000, 100.000 o più euro: quel ceto produttivo medio e medio-alto che guadagna bene, ma solo fino a quando si spezza la schiena e che non può continuare a pagare sia per chi ha di meno, sia per chi ha di più.
Il punto sulla centralità del lavoro, lo ripetiamo, non è però solo quello.
Il punto è anche ridisegnare una tassazione delle attività produttive volta a tassare di meno, a parità di reddito, chi sostiene maggiori oneri per dipendenti e collaboratori: l’esatto contrario di quello che accade oggi, grazie a una imposta demenziale come l’IRAP.
Cerchiamo insomma di orientare il dibattito; dopodiché, quando verrà il momento di dare attuazione a quello che sarà ritenuto giusto perseguire, i commercialisti italiani sostituiranno alla loro capacità di visione sociale la loro altrettanto solida capacità di traduzione tecnica.
C’è chi sa fare solo parole; chi ritiene che contino soltanto i fatti, al punto da essere convinto che parole e principi non valgano nulla; chi infine, per fortuna, sa sia pensare che fare.
L’Italia è fortunata: di persone così, ne ha oltre 110mila.
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