Per la spending review, anche lo Stato deve mettere qualcosa sul piatto
Secondo quanto comunicato ieri, i tagli di spesa che il Governo intende programmare per il 2012 con la spending review ammonterebbero a poco più di 4 miliardi di euro.
Per non varare l’aumento dell’IVA a partire dal prossimo ottobre, servono 3,3 miliardi sul 2012, 13,1 miliardi sul 2013 e 16,4 miliardi sul 2014.
Questo è il target minimo che è lecito attendersi dal Governo per una spending review che, se incapace di consentire una riduzione della pressione fiscale già oggi esercitata sul Paese, deve quantomeno scongiurare la concreta attivazione dell’ultimo e più significativo degli aumenti messi a bilancio nell’ambito delle manovre 2011.
Che riuscirvi sia un’impresa tutt’altro che semplice, non vi è dubbio alcuno.
Ancora più arduo sarà però evitare l’ennesima revisione al ribasso delle stime sul PIL se questo obiettivo non verrà centrato.
Inoltre, così come non è mai semplice tagliare, è difficile anche pensare che non esistano margini di manovra nell’ambito di una spesa pubblica che, rispetto a quella del 2000, risulta cresciuta in termini reali di 124 miliardi sul 2011 e, sulla base dei dati del Documento Economico Finanziario recentemente approvato, sul 2014 continuerà ad essere maggiore in termini reali di 110 miliardi.
Questo inopinato aumento, generatosi per intero tra il 2001 e il 2006, può e deve essere riassorbito con maggiore decisione e celerità.
In particolare, spicca l’incremento della voce per consumi intermedi, ossia gli acquisti di beni e servizi.
Rispetto al 2000, questa voce risulta cresciuta in termini reali sul 2011 di 63 miliardi e, nonostante le manovre, l’aumento sul 2014 continuerà ad essere di 57 miliardi.
Non stupisce quindi che, sempre nella giornata di ieri, il Governo abbia focalizzato la propria attenzione proprio su questa voce, annunciando la nomina di un commissario per la razionalizzazione della spesa sugli acquisti di beni e servizi nella persona di Enrico Bondi, vero e proprio “supertecnico”, non fosse altro perché, con questa nomina, diviene sulla materia il tecnico dei tecnici.
Al netto delle facezie, il problema è che il grosso del lavoro da fare su questo fronte non è a livello centrale.
Qui, infatti, la retorica delle Regioni e degli enti locali virtuosi, in contrapposizione allo Stato centrale spendaccione, segna il passo perché, conti alla mano, circa l’82% della spesa per consumi intermedi è riconducibile ai primi e solo il 18% restante al secondo.
Ciò non toglie che anche lo Stato debba fare la sua parte, cosa che fino ad oggi ha fatto in misura veramente minima.
L’insieme delle manovre varate nel 2011 ha inciso per complessivi 81,3 miliardi, di cui 53,6 miliardi di maggiori entrate (66%) e 27,7 miliardi di euro di minori spese (34%).
A loro volta, le minori spese sono “nominalmente” riconducibili per 4,2 alle Amministrazioni centrali, 13,1 a Regioni ed enti locali e 10,4 alle gestioni previdenziali.
In realtà, se si raffrontano i dati del DEF 2011 (prima, quindi, delle manovre) e quelli del DEF 2012 approvato nei giorni scorsi, emerge con chiarezza come sul 2014 lo Stato si ritroverà appena 0,5 miliardi in meno di spese, Regioni ed enti locali 16,3 miliardi in meno e le gestioni previdenziali 11,3 miliardi in meno.
Considerato che, le minori spese delle gestioni previdenziali sono sostanzialmente coincidenti con i risparmi derivanti dagli interventi sui trattamenti pensionistici, si può ben dire che, ad oggi, lo sforzo di riequilibrio dei conti pubblici grava per il 79,42% sui cittadini contribuenti e pensionati, per il 19,88% sulle Regioni e gli enti locali, per lo 0,7% sullo Stato.
È evidente che così non può funzionare e che non sono certo 4 miliardi di euro che possono cambiare squilibri distributivi dei sacrifici così marchiani.
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