Contributi di malattia non dovuti se la società paga il trattamento ai lavoratori
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27225 depositata ieri, si è pronunciata sulla sussistenza, o meno, per una società esercente pubblici servizi, dell’obbligo di versamento dei contributi per malattia e disoccupazione involontaria.
Nei precedenti gradi di giudizio, l’opposizione alla cartella esattoriale avente ad oggetto tali contributi era stata respinta. La Suprema Corte, invece, relativamente alla contribuzione di malattia, dà ragione alla società. Era, infatti, emerso che quest’ultima aveva corrisposto, in base a specifica previsione della contrattazione collettiva, le prestazioni economiche di malattia ai propri dipendenti.
Al riguardo, è, dunque, venuto in considerazione l’art. 20 del DL 112/2008, il quale, con una norma di interpretazione autentica, ha stabilito che i datori di lavoro che abbiano corrisposto, per legge o per contratto collettivo, il trattamento economico di malattia, con conseguente esonero dell’INPS, non sono tenuti a versare la relativa contribuzione.
Tale disposizione sanciva altresì l’irripetibilità dei contributi eventualmente già versati (seppur indebitamente) per il periodo anteriore al 1° gennaio 2009 (poi esteso al 1° maggio 2011 dal DL 98/2011), dovendosi considerare gli stessi definitivamente acquisiti all’Istituto previdenziale. Con riferimento a tale parte, però, essa è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale n. 82/2013, con conseguente diritto della società ricorrente, la quale, nelle more del giudizio, aveva versato i contributi di malattia richiesti dal 2004 al 2006, alla restituzione degli stessi.
Quanto alla contribuzione relativa all’assicurazione contro la disoccupazione, la questione si riferisce all’ambito normativo precedente alle abrogazioni operate dal DL 112/2008 e dalla L. 92/2012, incentrato sull’esonero dal pagamento della stessa del datore di lavoro che garantisca la stabilità dell’impiego (art. 40 del RDL 1827/1935).
La sentenza in commento muove dall’ampio filone che esclude l’assimilazione delle società a partecipazione pubblica, quale la ricorrente, alle imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi sostanzialmente di società private, caratterizzate dall’applicazione della disciplina dei rapporti di lavoro valevole per queste ultime, nonché dalla concreta possibilità di estinzione dei suddetti rapporti a seguito di licenziamento collettivo. Ed è proprio su questa concreta possibilità che fa leva la Corte nel rigettare, sul punto, il ricorso.
Si osserva, infatti, che il licenziamento collettivo è una fattispecie dai margini non predeterminati, la cui causale (riduzione o trasformazione di attività o lavoro) rientra nella sola disponibilità del datore di lavoro: la varietà delle valutazioni economiche che questi può porre alla base della sua decisione fa sì che il rischio della disoccupazione sia certamente presente anche nelle società partecipate da enti pubblici. Anche in tali società, dunque, fin tanto che sussiste l’assoggettabilità alla procedura ex L. 223/1991 non può configurarsi la stabilità dell’impiego neccessaria per essere esonerati dalla contribuzione in discorso.
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