De Masi: «La tecnologia non ridurrà il lavoro dei professionisti»
Per il sociologo la disoccupazione diminuirà solo abbassando le ore lavorate pro capite, ma per i lavori intellettuali ci sarà sempre spazio
Lavorare meno per lavorare tutti. È questo il paradigma che Domenico De Masi, noto sociologo del lavoro, ripete da tempo a chi gli chiede come si possa trovare una soluzione alla disoccupazione. Un tema, questo, sempre al primo posto nelle agende politiche di ogni Esecutivo e, seppur sotto un’altra prospettiva, al centro anche della seconda edizione del forum “Fisco & Futuro” organizzato da Eutekne, che si terrà il prossimo 23 settembre a Torino, dal titolo “Robot tax. La fine del lavoro senza la fine dello Stato”. In quella sede, si parlerà di come cambierà il mercato del lavoro con l’avvento di tecnologie sempre più avanzate, partendo da un’analisi di contesto che sarà lo stesso De Masi a tracciare (l’iscrizione all’evento è gratuita sul sito https://fiscoefuturo.it).
Professore, qual è stato l’impatto della tecnologia sul lavoro?
“Grazie alla tecnologia, siamo passati da una società industriale a una società in cui si producono beni immateriali lasciando la produzione materiale ai robot. Questo tipo di società ha comportato vari mutamenti. I Paesi più avanzati sono diventati luoghi dove si producono principalmente idee e dove il mercato è profondamente cambiato: siamo passati da un mercato dominato dall’agricoltura e poi dall’industria a uno dominato dai servizi. Oggi, in Italia, il 70% dei lavoratori è occupato nei servizi, il 3-4% nell’agricoltura e il resto nell’industria. C’è stata, inoltre, anche una trasformazione all’interno delle aziende: nella metà dell’800, nove lavoratori su dieci facevano gli operai. Oggi il 33% sono operai, il 33% impiegati e l’altro 33% creativi, che arriveranno al 50% in pochi anni”.
Quindi, più che sull’occupazione, la tecnologia ha inciso sul modo di lavorare.
“A livello mondiale, lavorano molte più persone di un tempo. Non c’è dubbio che si siano creati posti di lavoro. Nel frattempo ci sono anche molte più bocche da sfamare: basti pensare che ci avviamo verso gli otto miliardi di persone. Ma sopra ogni bocca da sfamare c’è un cervello. L’umanità è un insieme di intelligenze molto più numerose, istruite e interconnesse, per cui i problemi aumentano ma aumenta anche la capacità di risolverli”.
Ecco, quali sono i problemi legati al lavoro in Italia?
“Noi siamo la seconda potenza industriale europea dopo la Germania e dunque è con la Germania che ci dobbiamo parametrare. Parliamo di un Paese con il 3,8% di disoccupati contro il nostro 10%, il 79% di occupati contro il nostro 58%. Quindi, c’è qualcosa che non va. Dal 2000, noi abbiamo cercato la soluzione nella flessibilità, abbiamo fatto tante leggi, spendendo quasi 25 miliardi, per portare l’occupazione dal 57 al 58%”.
Insomma, tali politiche non hanno funzionato. Qual è la soluzione?
“La più semplice è quella che ha messo in atto la Germania. Man mano che introduceva nuove tecnologie che sostituivano il lavoro umano, riduceva l’orario di lavoro per i lavoratori. Allo stato attuale, la Germania ha un orario di lavoro medio di 1.400 ore all’anno, noi di 1.800. Un italiano lavora il 20% in più e guadagna il 20% in meno di un tedesco, perché produce il 20% in meno. Quindi, c’è bisogno di una duplice soluzione: da una parte ridurre l’orario di lavoro, dall’altra incrementare la produttività”.
Come si incrementa la produttività, riducendo il monte ore lavorate?
“La produttività dipende in larga misura dalla capacità del management aziendale e non dalle ore di lavoro dei dipendenti. Il 65% dei lavoratori lavora con la testa, e quando si lavora con la testa non è l’orario ma la quantità di idee che si producono a fare la differenza”.
Ma non c’è il timore che, con la tecnologia, possano sparire alcuni tipi di lavori?
“Non è un timore, è una speranza. Gli esseri umani hanno sempre creato prodotti per lavorare di meno. E ci siamo in buona parte riusciti, perché i nostri bisnonni lavoravano molto più tempo: nel 1891 gli Italiani erano 30 milioni e lavoravano 70 miliardi di ore all’anno; nel 1991, eravamo 50 milioni e abbiamo lavorato complessivamente 50 miliardi di ore, producendo 13 volte di più; nel 2018, abbiamo lavorato 40 miliardi di ore. Lo sviluppo senza lavoro è nei fatti. Noi produciamo più beni e servizi con meno lavoro umano, ed è una cosa bellissima: significa che abbiamo molto più tempo da vivere per tutte quelle cose che fruttano benessere”.
Quante ore di lavoro pro capite in meno servirebbero per occupare tutti?
“Dividendo 40 miliardi di ore per 40 ore alla settimana a testa, riusciamo a dare lavoro a 23 milioni di persone e ne lasciamo disoccupati altri tre. Se dividessimo per 36 ore, avremmo 29 milioni di posti disponibili, non solo i 26 milioni di di Italiani in età lavorativa ma anche 3 milioni di immigrati”.
Quale è, invece, la prospettiva per i professionisti? Soprattutto tra i commercialisti, la paura che la tecnologia possa ridurre il proprio spazio di mercato si fa largo. È una paura fondata?
“Il lavoro intellettuale non diminuirà ma resterà quantomeno stabile. Gli unici che non devono aver paura di perdere il posto di lavoro sono proprio i creativi: magari finirà un tipo di lavoro ma, riciclandosi, se ne trova un altro. Anche con l’avvento di nuove tecnologie, ci saranno altri tipi di attività creative che saranno possibili. Ripeto, per il lavoro intellettuale non avrei difficoltà a essere ottimista”.
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