Urgente colmare il divario di genere in Italia e nelle professioni
Gentile Redazione,
la celebre frase di Seneca, “Mentre si rimanda, la vita passa”, risuona con forza nel contesto delle disuguaglianze di genere che persistono in Italia. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, il nostro Paese continua a registrare significative disparità tra uomini e donne, specialmente nel mercato del lavoro di cui fanno parte anche le professioni ordinistiche. La questione non è solo etica; l’eliminazione delle differenze rappresenta, infatti, anche e soprattutto, un’opportunità strategica per potenziare la competitività e la crescita economica di una nazione e di una professione.
Dal 1945 a oggi, le donne hanno ottenuto diritti fondamentali in ambito politico, familiare, lavorativo e sociale. I passi compiuti in quasi 80 anni sono stati epici, ma purtroppo restano ancora sfide fondamentali aperte come la parità salariale, la rappresentanza nei ruoli di vertice e la lotta alla violenza di genere.
Secondo il “Rapporto Bes Istat 2024”, il tasso di occupazione femminile in Italia si attesta al 56,5%, significativamente inferiore rispetto al 76% maschile. Nonostante l’occupazione femminile sia cresciuta negli ultimi dieci anni in misura maggiore rispetto a quella maschile, il Global Gender Gap, stilato dal World Economic Forum, ci restituisce la fotografia di un divario che aumenta, portando il bel Paese all’87 esima posizione su 146 economie e collocando l’Italia tra i Paesi europei con il più ampio divario occupazionale di genere, oltre ad allontanarci, in termini di tempo, dal goal fissato nell’agenda 2030.
E nelle professioni? Secondo il rapporto Adepp sulla libera professione, aumenta il numero delle libere professioniste, che ormai si attestano al 41% del totale, ma aumenta anche il gender pay gap, soprattutto nella fascia di età tra i 50 e i 60 anni, dove il reddito medio delle professioniste è solo il 56% di quello dei loro colleghi. Il dato viene confermato anche all’apice della carriera. La questione si fa ancor più grave se si considera che, a un numero di laureate in economia che rappresenta ormai il 51,12% degli oltre 14.000 laureati nelle classi di laurea che consentono l’accesso all’iscrizione all’albo, corrisponde un numero di partecipanti all’esame di abilitazione pari al 46% del totale. E, nonostante le iscritte rappresentino il 33% del totale degli iscritti, le Presidenti degli Ordini Territoriali sono solo il 14%.
Tale evidente sottorappresentazione è il risultato dell’assenza, in taluni casi, di previsioni e di norme positive, quali ad esempio le quote di genere per i ruoli apicali.
Un’analisi dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) stima che l’eliminazione del divario di genere nell’Unione europea, anche solo di 0,5-0,8 punti percentuali, potrebbe generare un numero di nuovi posti di lavoro con un aumento del PIL pro capite dall’1,5% al 2,2% nel 2030 e dal 6,1% al 9,6% nel 2050. Stesse considerazioni arrivano da 4Manager di Confindustria e dall’Osservatorio sull’empowerment femminile nei Paesi G20 più la Spagna. La molteplicità di indici, provenienti dai più diversi osservatori e tutti convergenti sulle medesime considerazioni, non fa che confermare una realtà ormai acclarata da anni: esiste un problema e non riguarda più solo le donne, ma l’intero sistema economico. E non si tratta più soltanto di merito o preparazione, perché uguaglianza ed equità non sono sinonimi.
L’uguaglianza garantisce diritti uguali per tutti, che però non possono essere goduti a pieno se non grazie all’equità, ovvero a quegli strumenti o risorse necessari alla valorizzazione delle differenze, create da ruoli e condizioni anche sociali, affinché tutti possano raggiungere il proprio pieno potenziale. E quindi? Occorrono interventi mirati delle istituzioni politiche e di categoria, interventi sia concreti che simbolici, che consentano un salto di qualità effettivo e culturale.
Sicuramente il punto fondamentale è investire in una seria e convinta educazione contro gli stereotipi di genere. Ma perché non introdurre un patto “no woman no panel”? Perché non prendere atto del gender pay gap anche nelle politiche fiscali, inserendo negli ISA dei parametri di ponderazione che tengano conto delle differenze di genere? Perché non riconoscere un autentico valore ai CPO degli Ordini territoriali e al CPO nazionale attribuendo la rappresentanza esterna e un budget adeguato agli investimenti da realizzare? In maniera tale che siano proprio i CPO ad aiutare la categoria a parlare con una voce unitaria, contribuendo anche a migliorare la reputazione della nostra professione.
E se fosse proprio oggi il momento giusto per reagire, proporre, risolvere? Non in favore di qualcuno, come si vuol far credere, ma a beneficio di tutti? E se davvero pensassimo che il tempo fosse il bene più prezioso? Forse, allora, non ne perderemmo altro.
Le Presidenti CPO presso gli Ordini Territoriali della Toscana
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