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Da ripensare anche la responsabilità penale e amministrativa dei sindaci

Le posizioni della Cassazione appaiono spesso eccessivamente rigorose

/ Maurizio MEOLI

Martedì, 13 maggio 2025

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La responsabilità civile dei sindaci ha recentemente trovato una limitazione con riguardo al risarcimento dei danni procurati da controlli non adeguati sull’operato degli amministratori.
A partire dal 12 aprile, infatti, è in vigore il nuovo art. 2407 c.c. che, al di fuori delle ipotesi in cui abbiano agito con dolo, stabilisce per i sindaci (e per i sindaci-revisori) una responsabilità nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso.

Restano, tuttavia, profili decisamente problematici sia in ambito penalistico che in relazione alle violazioni amministrative.
A livello penalistico, per il coinvolgimento dei sindaci nei reati perpetrati dagli amministratori è, in genere, ritenuta sufficiente non la prova della loro conoscenza del fatto illecito, ma anche della concreta conoscibilità dello stesso mediante l’attivazione del potere informativo in presenza di segnali inequivocabili, con conseguente obbligo giuridico di intervenire per impedire il verificarsi dell’evento illecito; mentre la mancata attivazione di detti soggetti in presenza di tali circostanze determina l’affermazione della penale responsabilità avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare, l’evento di danno (cfr. Cass. n. 17626/2020 e n. 36595/2009).

Si tratta di una ricostruzione estremamente rigorosa che rischia di trascinare in ambito penale anche condotte solo colpose (per quanto gravemente tali). Ed infatti, in altre decisioni, la Suprema Corte ha sottolineato come non sia sufficiente la presenza dei c.d. segnali d’allarme da cui desumere un evento pregiudizievole per la società, o almeno il rischio del verificarsi di detto evento, ma è necessario che il sindaco ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo (cfr. Cass. n. 23000/2013 e n. 42519/2012).

Di estrema problematicità resta, invece, la responsabilità per le violazioni amministrative comminate nei confronti dei sindaci delle società quotate e delle banche; ciò, in particolare, per l’omessa vigilanza e l’omessa comunicazione delle irregolarità alle autorità di vigilanza ex artt. 149 comma 3 del DLgs. 58/98 (c.d. TUF) e 52 comma 1 del DLgs. 385/93 (c.d. TUB).

Nel primo ambito, la pronuncia della Cassazione n. 3251/2009, configurando l’obbligo di comunicazione ex art. 149 comma 3 del DLgs. 58/98 come un corollario del dovere di vigilanza, ha escluso che l’omissione di essa possa ritenersi non punibile ove i sindaci non provino che la loro inosservanza dell’obbligo di comunicazione sia dovuta ad un’impossibilità di riscontrare l’irregolarità conseguente a caso fortuito o forza maggiore, giacché l’art. 3 della L. 689/1981 pone una presunzione (sia pure relativa) di colpevolezza della condotta.

Più di recente, poi, la decisione della Suprema Corte n. 6037/2016 ha precisato che l’omissione di vigilanza in questione sarebbe perfettamente compatibile con la “rappresentabilità” degli illeciti da impedire e, dunque, con la colpa. L’inosservanza dei doveri di informazione-sorveglianza, quindi, legittima l’applicazione di una sanzione “colposa” laddove gli “organi vigilati” commettano (a loro volta) illeciti, poiché non occorre la prova che il “garante primario” (i sindaci) conosca in concreto ogni aspetto dell’attività posta in essere dai secondi, essendo viceversa sufficiente la sola “potenzialità di conoscenza”, legittimamente destinata a presumersi. Una volta integrato l’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della L. 689/81, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza.

Analogo rigoroso atteggiamento si rinviene nel mondo bancario. Recentemente, ad esempio, la sentenza di legittimità n. 6887/2025 ha stabilito che l’art. 52 comma 1 del DLgs. 385/93 delinea un meccanismo di collegamento funzionale tra Collegio sindacale e autorità di vigilanza in ragione del quale tale organo è tenuto a informare senza indugio la Banca d’Italia di tutti gli atti o i fatti che possano costituire una irregolarità nella gestione delle banche o una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria. Grava, quindi, sui sindaci il dovere di esercitare un controllo di legalità autonomo sui fatti di gestione, non dipendente dall’apporto delle sottostanti funzioni di controllo; per conseguenza, essi, in forza del loro dovere, sono in via generale chiamati a risponderne, ove l’operatività aziendale si ponga in contrasto con la legge. In altri termini, una volta che l’autorità di vigilanza abbia accertato le irregolarità nella loro oggettività, la colpevolezza dei sindaci si presume, salvo che dimostrino – dunque con onere a loro carico – di aver fatto tutto il possibile per assolvere ai propri doveri ovvero di essersi trovati incolpevolmente nella condizione di non poter agire diversamente. Si tratta di prove a discarico che, una volta emerse le irregolarità, appaiono sostanzialmente impossibili da fornire, nonostante l’eventuale utilizzo della dovuta diligenza (cfr. il Caso Assonime n. 9/2018).

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