Quando il fisco dimentica gli obblighi formativi dei professionisti
Se c’è una cosa su cui tutti concordano, quando si affronta il tema delle libere professioni, è che la principale preoccupazione in questo ambito deve essere quella di assicurare la tutela dei cittadini, nell’ottica della qualità della prestazione offerta dal libero professionista.
A sua volta, se c’è una cosa sulla quale non si può non concordare, è che questo obiettivo passi necessariamente attraverso la qualificazione professionale di chi offre consulenza, sia per quanto concerne il percorso di accesso alla professione, sia per quanto concerne poi la manutenzione e l’approfondimento costante delle conoscenze acquisite.
Il punto centrale, in altre parole, è la formazione del professionista lungo tutto l’arco temporale della sua presenza sul mercato.
Ne sono consapevoli le categorie professionali più avvedute, ma ne è consapevole anche il legislatore.
Non a caso, elemento imprescindibile di un ordinamento professionale moderno è divenuta la previsione di un vero e proprio obbligo (per legge) di formazione professionale continua da parte degli iscritti al relativo Albo.
In questo, i dottori commercialisti e gli esperti contabili italiani sono stati senza dubbio antesignani.
Peccato però che, ancora una volta, agli obblighi non si facciano seguire i più elementari diritti.
Ancora oggi, in Italia, le spese che i liberi professionisti sostengono per pagare la propria formazione continua risultano deducibili dal reddito imponibile soltanto nella misura del 50%, anche quando si tratta di professionisti che vi adempiono in esecuzione di uno specifico obbligo di legge posto a loro carico.
Come se metà di quella spesa non fosse sostenuta per qualcosa di strettamente inerente alla propria attività professionale (e per di più, per taluni, obbligatoria per legge), ma per sfizio personale.
Inutile dire che nel resto di Europa nessuna legislazione fiscale si sogna di fare altrettanto.
Basta scorrere l’analisi comparata tra le legislazioni dei diversi Paesi, appositamente predisposta da Eutekne.info (rubrica INFODOSSIER), per vedere come in tutti i Paesi considerati le spese di formazione sostenute dai liberi professionisti per l’esercizio della propria attività sono ammesse in deduzione al 100%.
Ancora una volta, dunque, l’Italia dimostra la sua grande capacità nell’introdurre obblighi, ma la sua parallela attitudine a essere il classico fanalino di coda dell’Europa ogni qual volta si tratta di riconoscere dei correlati diritti.
Qui, infatti, non si tratta soltanto di essere così poco avveduti da arrivare, nei fatti, addirittura a disincentivare la formazione e l’aggiornamento dei liberi professionisti, con tanti saluti ai bei discorsi sulla tutela dei clienti e della qualità delle prestazioni, nonché sul sostegno alla loro capacità di competere a livello internazionale.
Oltre a quanto precede, il mancato riconoscimento della piena deducibilità integra gli estremi del vero e proprio sopruso fiscale per quei liberi professionisti, come ad esempio i dottori commercialisti e gli esperti contabili, per i quali la formazione e l’aggiornamento professionale non sono un fatto privato di scrupolo e amor proprio, bensì un preciso e ineludibile obbligo sancito da una legge dello Stato.
Insomma, le limitazioni di deducibilità previste dal comma 5 dell’art. 54 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi sono ormai anacronistiche e devono essere modificate.
Non si tratta di agevolare i professionisti italiani, ma solo di rimetterli su un piano di parità con i loro colleghi europei, su un tema centrale come quello della formazione.
A maggior ragione, dove l’onere assume i contorni dell’obbligo di legge.
Doverlo continuare a chiedere è imbarazzante ma, questa volta, non certo per chi lo chiede.