La giurisprudenza prende una «piega» sempre più sconcertante
Siamo al delirio giurisprudenziale?
Forse no, ma di fronte a sentenze della Cassazione come la n. 18702 del 13 agosto 2010, in materia di deducibilità dal reddito dei compensi degli amministratori di una società di capitali, è difficile non essere assaliti dal dubbio. Da questo punto di vista, è un sollievo affrontare questo tema con un editoriale e non invidio certo Salvatore Sanna, cui compete, in altro articolo di questo numero del quotidiano, l’onere di offrire ai lettori di Eutekne.info un più misurato commento tecnico della sentenza (si veda “Fino al 2003 compensi agli amministratori indeducibili”).
Per la Cassazione i compensi erogati dalle società di capitali ai propri amministratori non sono deducibili. E non perché magari li si è dedotti in un periodo d’imposta diverso da quello della loro erogazione: non lo sono e basta. Mai.
Le motivazioni (?) sono alquanto stringate e consistono essenzialmente nel rinvio ad una precedente sentenza del 2006, con la quale questa sorprendente conclusione aveva iniziato ad affacciarsi; anche se, come sempre accade quando una cosa è troppo brutta, si era fatto un po’ tutti finta di non vederla.
Il problema dovrebbe comunque porsi solo fino al 2003, posto che il testo del comma 5 dell’art. 95 del TUIR in vigore dal 2004 (dopo le modifiche introdotte dal DLgs. 344/2003) sembrerebbe disinnescare in partenza le ardite ricostruzioni interpretative operate dalla Cassazione sul testo previgente.
Al di là di questa consolazione, con riguardo al caso specifico, è un dato di fatto che, dal 2005 in poi, la giurisprudenza della Cassazione abbia preso una piega a dir poco particolare, di cui il filone sull’abuso di diritto rappresenta senza dubbio la vena principale e più appariscente, senza però racchiudere in sé l’intero giacimento di sorprese. L’impressione, alquanto evidente, è che, in materia tributaria, la Cassazione sia divenuta in quest’ultimo quinquennio più realista del re (leggasi “dell’Amministrazione finanziaria”) e porti avanti in tutti i modi possibili una impostazione manifestamente sostanzialista: al di là di quello che dicono le norme, si decide in base a quella che sembra essere la sottostante sostanza economica dei fatti e delle operazioni.
Una sorta di principio della prevalenza della sostanza sulla forma che però, a questo punto, dovrebbe portare alla ridenominazione del “diritto tributario” in un più consono “bilancio fiscale”. Perché qua, di diritto, se ne vede sempre meno; mentre, per l’appunto, si assiste sempre di più a riqualificazioni delle operazioni sulla base della ricostruzione della loro presunta sostanza economica.
Il tutto, purtroppo, a cura di soggetti che, in quanto magistrati, hanno assai scarsa dimestichezza con l’economia e farebbero dunque bene a tenersi stretto quello che conoscono e che, anche istituzionalmente, dovrebbero applicare: il diritto.
Tra l’altro, è a dir poco stupefacente vedere come questa deriva ultra-sostanzialistica sia promossa ed alberghi proprio nelle pronunce di una Corte che non è di merito, bensì di legittimità (anche se, in ambito fiscale, questa importante distinzione è sempre stata troppo sfumata) e dovrebbe quindi concentrarsi proprio soltanto sulla corretta applicazione delle norme, piuttosto che sul merito dei fatti sottostanti.
Di questo passo è davvero difficile immaginare dove andremo a finire, anche se è vero che non bisogna mai disperare, perché anche le più importanti istituzioni sono fatte di uomini e gli uomini, col tempo, passano.
Certo è che, di fronte a simili spettacoli, viene da pensare che il presunto sconcio della c.d. legge ad aziendam (concernente la possibilità di definire con il 5% le liti pendenti in Cassazione, da parte dei contribuenti che avevano vinto nei primi due gradi di giudizio) sia in effetti uno scandalo, ma solo perché si tratta di norma già scaduta lo scorso 24 agosto, mentre avrebbe dovuto essere norma a regime.
Perché, di questi tempi, se due gradi di giudizio di commissioni tributarie gli hanno già dato ragione, il contribuente è francamente legittimato a pensare che, se l’Amministrazione finanziaria lo porta fino in Cassazione, rischierà di sentirsi dare torto anche se è perfettamente consapevole, come lo erano i giudici dei primi due gradi di giudizio, di avere invece tutte le ragioni.
Una battuta? Sì, ma davvero molto amara.