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EDITORIALE

Di slogan in slogan, qua finisce male

/ Enrico ZANETTI

Sabato, 2 luglio 2011

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Ora che le bocce sono ferme, possiamo provare a tirare le prime somme sui provvedimenti licenziati dal Consiglio dei Ministri di giovedì: il DL con la manovra di correzione dei conti pubblici e i due disegni di legge delega, sulle professioni e sulla riforma fiscale.

Sulla manovra, pare evidente che si è in presenza di un puro e semplice rinvio delle scelte (a cominciare dal famoso taglio dei costi della politica), così da lasciarle nelle mani del prossimo Esecutivo.
Difficile commentare altrimenti una manovra che punta al pareggio di bilancio sul 2014 e che, nello stimare in un intorno di 47 miliardi il fabbisogno per arrivarci, disloca il reperimento di 40 di quei 47 miliardi tra il 2013 e il 2014.

Senza contare che pare sempre più evidente la confusione ormai imperante tra ciò che costituisce un mezzo e ciò che costituisce un fine di una politica di governo.
Il raggiungimento del pareggio di bilancio sul 2014 e, più in generale, la stabilita dei conti pubblici sono un mezzo, assolutamente ineludibile e imprescindibile al punto cui siamo arrivati, ma pur sempre un mezzo.
Qual è il fine dell’azione politica di questo Governo? Qual è il progetto sul futuro del Paese?
Più terziario? Più innovazione tecnologica? Più manifattura? Più turismo? Su cos’è che puntiamo con decisione e, appunto, con una strategia di medio-lungo periodo?
Manovre da 80 miliardi con un fine chiaro risulterebbero probabilmente meno sconcertanti di manovre da 40 miliardi senza fine, nel senso anche di una dopo l’altra.

Asistematica la previsione di abrogare l’esame di Stato

Per quanto riguarda il Ddl. delega sulle professioni, è un testo tutto sommato interessante, o quanto meno sembra tale dopo l’obbrobrioso guazzabuglio che era stato inizialmente inserito in manovra, prima di essere opportunamente stralciato.
Ridicole nel merito e totalmente asistematiche in diritto, però, le previsioni concernenti l’abrogazione dell’esame di Stato per commercialisti ed avvocati; due professioni, peraltro, che, sommate, insieme fanno circa 350.000 iscritti, alla faccia delle “caste chiuse”.
Senza contare che, per chi tanto teme le “dinastie professionali” (si veda “Più evasione con omonimie tra commercialisti? Per favore: pietà” del 25 giugno 2011), la previsione di percorsi di accesso con tirocini obbligatori e nessun esame di Stato è viceversa l’ideale per trasformare in una mera formalità il conseguimento del titolo professionale per un “figlio d’arte”.

Per quanto riguarda il Ddl. delega per la riforma del sistema fiscale, inutile avventurarsi ora in lodi o critiche di dettaglio: saranno i prossimi mesi, ma più probabilmente anni, a dirci se siamo di fronte a una sorta di replica della poi inattuata legge delega del 2003, di cui peraltro questa è, in numerosissimi passaggi, una vera e propria replica anche nel senso letterale del termine.

Sul Fisco, molto meglio tornare a ragionare sulle assai più concrete disposizioni recate dal decreto della manovra.
Sulla giustizia tributaria, in particolare, si sta completando un vero e proprio scempio, denunciato come tale non da quegli amici degli evasori che sono i commercialisti, ma dal Consiglio di Presidenza stesso della Giustizia tributaria e dall’Associazione nazionale dei Magistrati Tributari.
Un appiattimento della giurisdizione verso Ministero dell’Economia e amministrazione finanziaria che lascia stupefatti e non può non essere motivo di seria preoccupazione, tanto più in una situazione quale quella attuale che tanto serena non deve poi essere, se i massimi esponenti dell’uno e dell’altra hanno anche di recente parlato apertamente di accertamenti talvolta vessatori, a causa degli stringenti obbiettivi di recupero che opprimono gli uffici, proprio come le tasse opprimono i contribuenti.
Diciamo che, se non è l’ennesima mossa per costruire un sistema sempre più basato sulla ferocia della riscossione, anziché sulla certezza di un’equa valutazione della pretesa, è talmente raffinata da essere di troppo ardua comprensione.

Di slogan in slogan, qua finisce male.

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