Nella bancarotta fraudolenta documentale il dolo non è sempre uguale
La Cassazione, nella sentenza n. 45289/2017, ha precisato che, per la configurazione della bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216 comma 1 n. 2 prima parte del RD 267/1942 – sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili – è necessario, per espresso dettato normativo, il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.
Invece, per l’ipotesi di cui all’art. 216 comma 1 n. 2 seconda parte del RD 267/1942 – irregolare tenuta della contabilità in maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari – è stato richiesto, dapprima, il dolo intenzionale, perché la finalità dell’agente è riferita ad un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva, l’impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell’impresa, anziché ad un elemento ulteriore, non necessario per la consumazione del reato, quale è il pregiudizio per i creditori (cfr. Cass. n. 21075/2004), e, successivamente, il dolo generico, costituito dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione (cfr. Cass. nn. 5264/2014 e 22109/2005).
In ogni caso, è rimasto fermo il dolo specifico – verso il perseguimento di un profitto ingiusto, ovvero di un danno per i creditori – per le ipotesi di sottrazione, distruzione o falsificazione della contabilità (cfr. Cass. nn. 17084/2015 e 21872/2010).
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