Non serve la continuità della prestazione per accertare il carattere della subordinazione
Con l’ordinanza n. 23056 depositata ieri, la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di una lavoratrice che rivendicava l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti della struttura alberghiera presso la quale aveva prestato servizio in modo discontinuo, per quasi cinque anni, come cameriera al piano.
Nei precedenti gradi di giudizio, era stata accolta la tesi datoriale, secondo la quale la natura subordinata del rapporto di lavoro doveva essere esclusa per carenza di presupposti: in pratica, secondo il datore di lavoro, non era stata provata la continuità giornaliera della prestazione resa dalla lavoratrice, né quest’ultima si era messa a disposizione dell’albergo durante i periodi di tempo non lavorati.
Secondo i giudici di legittimità, invece, l’elemento della continuità della prestazione non è fondamentale per caratterizzare la natura subordinata del rapporto di lavoro, tenuto conto che le parti possono decidere di concordare modalità di svolgimento della prestazione che si articolino secondo le richieste o le disponibilità di ciascuna di esse, come avviene, ad esempio, con il contratto di lavoro a chiamata o in regime di part time verticale.
Alla luce dei principi sovraesposti, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso della lavoratrice – rinviando il caso alla Corte d’appello perché accertasse le concrete modalità temporali di svolgimento della prestazione – e ha affermato che il concetto di subordinazione di cui all’art. 2094 c.c. non presuppone necessariamente una continuità giornaliera della prestazione lavorativa, perché “le parti possono esprimere una volontà, anche con comportamenti di fatto concludenti, di svolgimento del rapporto con modalità che prevedono una prestazione scadenzata con tempi alternati o diversamente articolati rispetto alla prestazione giornaliera o anche con messa in disponibilità del lavoratore a richiesta del datore di lavoro”.
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