Per i reati in contratto il profitto sequestrabile dipende dal corrispettivo incassato per i raggiri
Nei reati derivanti da un contratto avente ad oggetto prestazioni illecite, il profitto sequestrabile è pari al corrispettivo incassato in ragione degli artifici e raggiri posti in essere nell’esecuzione dell’accordo.
Tale principio viene ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 33092 depositata ieri, in relazione ad un sequestro ordinato nei confronti di una società, accusata del reato di truffa aggravata nell’ambito dell’attività di gestione di rifiuti (artt. 19, 53 e 24 del DLgs. 231/2001).
Viene qui richiamato dai giudici di legittimità l’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui la nozione generale di “profitto”, in ambito penale, ha assunto un significato più ampio rispetto a quello economico-aziendalistico, diverso dal reddito di esercizio determinato con il confronto tra componenti positive e negative, concettualmente distante dalle nozioni di utile operativo o di utile di esercizio (Cass. SS.UU. n. 26654/2008).
Si fa riferimento alla nozione di “reati in contratto” nei quali la condotta punita non è nella conclusione del contratto ma è nella formazione della volontà contrattuale o nella fase della sua esecuzione: in tali ipotesi la nozione di profitto del reato può subire un ridimensionamento dovendo essere rapportata alla concreta situazione, in cui può essere difficile distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti.
Nel caso in esame, tuttavia, essendo stata effettuata una procedura di smaltimento rifiuti del tutto differente da quella convenuta e, dunque, del tutto illecita (e con minori costi), il profitto ben può essere determinato nell’intero importo delle prestazioni fatturate e liquidate. La Cassazione ricorda, altresì, che tale somma non potrà essere determinata in ragione del calcolo delle imposte dovute all’Erario sulla base della contestazione di reati tributari.
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