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OPINIONI

Modifiche alla norma sugli organi di controllo nelle srl non condivisibile

L’ipotesi prospettata tradisce l’impianto della riforma della crisi d’impresa

/ Raffaele MARCELLO

Sabato, 18 maggio 2019

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Pubblichiamo l’intervento di Raffaele Marcello, Consigliere CNDCEC con delega alla Revisione, ai Principi contabili e di valutazione e al sistema di amministrazione e controllo.

Si resta sinceramente sbalorditi nell’apprendere che è in corso una campagna volta a rivedere significativamente i parametri di cui al novellato art. 2477 c.c., azione che, in tutta sincerità, rischia di inficiare il lavoro svolto con il Codice della crisi. Lo stupore, o meglio l’imbarazzo, che si riporta soffermandosi sulla “ventata” di populismo in questione, è dovuto a due motivi.

Il primo: la modifica di un testo appena approvato, finalizzato a migliorarne la funzionalità, si effettua, solitamente, tramite un intervento di correzione complessivo e a “tutto tondo” e non tramite la modifica di singole previsioni avulse dal contesto generale di riferimento.

Il secondo: i nuovi parametri previsti che vorrebbero assumersi comportano un ridicolo e sensazionalistico ridimensionamento del sistema dei controlli nelle srl.

Ridicolo perché si passa da 2 a 6 milioni di totale dell’attivo dello stato patrimoniale; da 2 a 12 milioni di ricavi, da 10 a 50 dipendenti occupati in media durante l’esercizio, anche se il superamento di tali parametri dovrebbe essere registrato in un solo esercizio.

Sensazionalistico, perché si fornisce l’illusione che i grandi stravolgimenti siano sempre possibili (oltre che leciti) e possano avvenire in pochissimo tempo e con un semplice colpo di spugna. Anche disposizioni che, sebbene dirompenti rispetto alle realtà delle piccole imprese, sono frutto di complessive scelte maturate nell’ambito di una riforma di ampio respiro e sono destinate, peraltro, a favorire la continuazione dell’attività di impresa e non la liquidazione, possono essere riviste in pejus in nome di una crescita che di fatto impediranno.

Non posso non mettere in evidenza, che prospettata novella, non solo tradisce tutto l’impianto e la filosofia di fondo che ha animato la riforma delle crisi di impresa e dell’insolvenza, bensì si rivela per la professione dei commercialisti dannosa, in quanto la versione proposta è peggiorativa anche rispetto alla previgente formulazione dell’art. 2477 c.c. dove i parametri di riferimento erano quelli contenuti nell’art. 2435-bis c.c. e dunque: 4,4, milioni di totale dell’attivo dello stato patrimoniale; 8,8 milioni di ricavi e 50 dipendenti.

Si tratta, allora, di un stravolgimento che non può essere condiviso e che non condivido come rappresentante di una categoria professionale che con la sua professionalità e la sua competenza specifica nel fare il “collegio sindacale” o nel fare “revisione” aiuta le società a prevenire i rischi e a intercettare i segnali di crisi, categoria che per tal motivo non rappresenta affatto un costo per le società.

Più volte ho sostenuto che la recente riforma della crisi di impresa, ancorché si rendano opportuni alcuni aggiustamenti che, in linea di principio, involgendo anche il ruolo dei sindaci possono essere colmati tramite strumenti che indicano best practice (per intendersi, le Norme di comportamento del collegio sindacale), è nel suo insieme condivisibile, così come è condivisibile la ratio dell’allerta da cui essa origina.
Peraltro, secondo l’art. 12 del Codice della crisi, costituiscono strumenti di allerta gli obblighi di segnalazione posti a carico dell’organo di controllo interno alla società e del revisore finalizzati alla rilevazione tempestiva degli indizi di crisi dell’impresa e alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione.

Di talché con l’emendamento di cui sopra, un gran numero di srl verrebbero private della possibilità di attivare il meccanismo di allerta dall’interno e conseguentemente di risolvere, sempre all’interno, quelle criticità che il virtuoso scambio di flussi informativi e la cooperazione tra organo di amministrazione e organo di controllo, e di quest’ultimo con l’incaricato della revisione legale, potrebbe facilmente far emergere e risolvere anche senza il coinvolgimento dell’OCRI (cfr. art. 14, commi 1 e 2, Codice della crisi).

Da anni sosteniamo che la dialettica costruttiva tra gli organi che svolgono funzioni di amministrazione e controllo nella stessa società può essere risolutiva delle situazioni in cui emergano dubbi significativi circa un probabile stato di crisi, proprio per favorire la crescita delle imprese e non anche la liquidazione.
Ne consegue, allora, che volendo ragionare sulla logicità dei parametri da individuare nell’art. 2477 c.c. in relazione ai nuovi obblighi previsti dal Codice della crisi, senza affidarsi a dottrine cabalistiche, la soluzione migliore non sembra essere quella da ultimo individuata.

Andrebbe a cogliere nel segno, invece, come già da qualcuno sostenuto, una revisione dell’art. 2477 c.c., in modo equilibrato e coerente con tutta la riforma delle crisi e del diritto societario avviata con il Codice della crisi, e ideata di guisa che l’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore sia ancorato al superamento, per due esercizi consecutivi, di almeno uno dei seguenti limiti: totale dell’attivo, 4 milioni; ricavi, 4 milioni di euro; dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 20 unità.

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